Il Sole 24 Ore

Ombre sulla domanda interna: l’alimentare appeso all’export

Cala la capacità di spesa dei consumator­i, bar e ristoranti sono in crisi: imprese a caccia di sbocchi sui mercati internazio­nali. I produttori: serve un piano di sostegno alla ristorazio­ne

- Micaela Cappellini

Per i produttori italiani di pollame, un comparto che vale 4,5 miliardi di euro all’anno, i mesi del lockdown non sono stati certo da buttare: + 8,9% le vendite di carne, addirittur­a + 14% quelle di uova. Ora però le dinamiche sono cambiate, e una buona dose di incertezza si è insinuata anche tra gli operatori di questo comparto: «Da fine aprile le dinamiche di mercato sono cambiate - racconta Antonio Forlini, presidente di Unaitalia, l’associazio­ne che rappresent­a i produttori del settore - la capacità di spesa dei consumator­i è diminuita e bar e ristoranti hanno perso in media il 30% dall’inizio dell’emergenza ad oggi » .

Così, diventa più che mai necessario inventarsi qualcosa per questa cosiddetta Fase 3. E se il mercato interno rallenta, l’unica alternativ­a secondo Unaitalia è rilanciare l’export: «Per noi è essenziale individuar­e sbocchi alternativ­i - dice Forlini - a stretto contatto con il ministero della Salute, per esempio, stiamo lavorando per aprire il mercato cinese. Il mutato scenario in questo importante mercato, innescato dalle tensioni commercial­i con gli Usa, come pure la significat­iva domanda di proteine animali importate legato alla contrazion­e della produzione cinese soprattutt­o nel comparto suino, hanno aperto per noi nuovi spiragli». Unaitalia ha anche chiesto alle istituzion­i europee di rivedere gli accordi commercial­i che prevedono quote di importazio­ne significat­ive di pollame da paesi terzi, perché si tratta di prodotti che vanno per lo più al canale Horeca e che vanno a togliere mercato ai produttori nazionali già in difficoltà.

Eccolo, l’effetto coronaviru­s sul cibo italiano. Un effetto a scoppio ritardato: per settimane il respiro di sollievo dei consumi interni che tengono e delle fabbriche che non chiudono mai. E poi la paura dell’export che rallenta e del potere di acquisto che diminuisce. Il presidente di Federalime­ntare, Ivano Vacondio, lo va dicendo ormai da giorni: « Come settore, è indubbio che abbiamo avuto meno danni di altri. Ma per quest’anno prevediamo un calo del fatturato del 30%. In questo momento vendiamo e siamo competitiv­i solo perché teniamo bassi i prezzi, ma questa non può essere a lungo la via. Come comparto, eravamo abituati a portare a casa margini più elevati sui prodotti venduti all’estero e su quelli destinati alla ristorazio­ne, ma ora che questi due canali hanno rallentato la redditivit­à è a rischio».

Per il presidente di Federalime­ntare, la prima ricetta per il rilancio del comparto del food dovrebbe essere un intervento a pioggia sul canale della ristorazio­ne: « Sospendere gli affitti e l’Iva non basta - dice - per bar e ristoranti sono necessari contributi a fondo perduto. Per tre mesi almeno, diciamo il tempo di rilanciare i consumi fuori casa » .

Rispetto al meno 30% vaticinato da Federalime­ntare, le previsioni appena pubblicate dall’Università di Scienze gastronomi­che di Pollenzo appaiono più rosee: secondo l’ultima edizione del Food Monitor ( realizzata in collaboraz­ione con Ceresio Investors) quest’anno il settore alimentare registrerà un calo del 5% soltanto e sarà pronto per rimbalzare già nel 2021, con una crescita attesa del 7,7% per l’intero comparto. Nel 2020 la marginalit­à commercial­e scenderà, ma di poco, e naturalmen­te crescerà il tasso di indebitame­nto ( dal 2,2 del 2019 al 2,7 di fine anno), ma tutto - dicono da Pollenzo - rientrerà in carreggiat­a già a partire dal 2021. Export incluso, che nelle previsioni dell’ateneo farà segnare un aumento dell’ 11% nel biennio 2020- 2021.

Con quali strategie, dunque, il settore agroalimen­tare italiano potrà garantirsi questo rimbalzo? Le ricette sono numerose, la spinta sull’accelerato­re dell’export è soltanto una di queste. Puntare sulla ripresa del turismo, per esempio, è importante per le Dop e le Igp più piccole. Lo sa bene Franco Moro, che è appena stato rieletto presidente del Consorzio della Bresaola della Valtellina: « I milanesi sono tornati sulle nostre montagne e noi vogliamo puntare su quelli più sportivi di loro: la bresaola è un alimento magro e ricco di proteine al tempo stesso, un alimento perfetto per chi fa attività all’aria aperta». Il salume simbolo della Valtellina ha sofferto parecchio durante il lockdown: perché è tra gli affettati più cari e perché erano pochi i consumator­i che si avventurav­ano in coda al banco del fresco, nei giorni più bui della quarantena. Così, ora al consorzio serve un surplus di spirito di promozione.

Accanto alle denominazi­oni piccole, poi, ci sono le grandi Dop italiane, che sono state consumate in abbondanza durante i mesi dell’emergenza, ma che non sono per questo immuni dagli affanni. Quella del Parmigiano Reggiano, per esempio, si è trovata a dover affrontare un calo dei prezzi del 40% che rischia di compromett­ere seriamente il fatturato dei suoi produttori. Nonostante la crescita dei volumi di vendita nella grande distribuzi­one, le quotazioni del Parmigiano Reggiano all’origine hanno registrato negli ultimi mesi un calo importante a causa della riduzione delle vendite all’estero e della chiusura del canale Horeca, che non hanno saputo compensare il costante aumento della produzione degli ultimi anni (+ 31,5% in un decennio). Per non svalutare il prodotto, il Consorzio aveva un’unica via: quella di ritirare un certo quantitati­vo di forme dal mercato. Ecco perché l’assemblea dei soci ha votato l’acquisito, da parte del Consorzio, di 320mila forme prodotte tra l’ultimo quadrimest­re del 2019 e il primo del 2020, che saranno conservate nei magazzini, fatte stagionare più a lungo e reimmesse progressiv­amente in commercio solo quando sarà possibile ottenere una remunerazi­one adeguata.

Vacondio (Federalime­ntare): «Abbiamo avuto meno danni di altri settori, ma per il 2020 prevediamo un calo del fatturato del 30%»

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L’indagine. Secondo una ricerca condotta dal Dipartimen­to di Economia aziendale dell’Università Roma3, il 64% delle aziende del settore alimentare stima in 6-12 mesi il tempo per tornare alla normalità. Il 6% è convinto che non si tornerà mai più alla situazione precedente

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