Ombre sulla domanda interna: l’alimentare appeso all’export
Cala la capacità di spesa dei consumatori, bar e ristoranti sono in crisi: imprese a caccia di sbocchi sui mercati internazionali. I produttori: serve un piano di sostegno alla ristorazione
Per i produttori italiani di pollame, un comparto che vale 4,5 miliardi di euro all’anno, i mesi del lockdown non sono stati certo da buttare: + 8,9% le vendite di carne, addirittura + 14% quelle di uova. Ora però le dinamiche sono cambiate, e una buona dose di incertezza si è insinuata anche tra gli operatori di questo comparto: «Da fine aprile le dinamiche di mercato sono cambiate - racconta Antonio Forlini, presidente di Unaitalia, l’associazione che rappresenta i produttori del settore - la capacità di spesa dei consumatori è diminuita e bar e ristoranti hanno perso in media il 30% dall’inizio dell’emergenza ad oggi » .
Così, diventa più che mai necessario inventarsi qualcosa per questa cosiddetta Fase 3. E se il mercato interno rallenta, l’unica alternativa secondo Unaitalia è rilanciare l’export: «Per noi è essenziale individuare sbocchi alternativi - dice Forlini - a stretto contatto con il ministero della Salute, per esempio, stiamo lavorando per aprire il mercato cinese. Il mutato scenario in questo importante mercato, innescato dalle tensioni commerciali con gli Usa, come pure la significativa domanda di proteine animali importate legato alla contrazione della produzione cinese soprattutto nel comparto suino, hanno aperto per noi nuovi spiragli». Unaitalia ha anche chiesto alle istituzioni europee di rivedere gli accordi commerciali che prevedono quote di importazione significative di pollame da paesi terzi, perché si tratta di prodotti che vanno per lo più al canale Horeca e che vanno a togliere mercato ai produttori nazionali già in difficoltà.
Eccolo, l’effetto coronavirus sul cibo italiano. Un effetto a scoppio ritardato: per settimane il respiro di sollievo dei consumi interni che tengono e delle fabbriche che non chiudono mai. E poi la paura dell’export che rallenta e del potere di acquisto che diminuisce. Il presidente di Federalimentare, Ivano Vacondio, lo va dicendo ormai da giorni: « Come settore, è indubbio che abbiamo avuto meno danni di altri. Ma per quest’anno prevediamo un calo del fatturato del 30%. In questo momento vendiamo e siamo competitivi solo perché teniamo bassi i prezzi, ma questa non può essere a lungo la via. Come comparto, eravamo abituati a portare a casa margini più elevati sui prodotti venduti all’estero e su quelli destinati alla ristorazione, ma ora che questi due canali hanno rallentato la redditività è a rischio».
Per il presidente di Federalimentare, la prima ricetta per il rilancio del comparto del food dovrebbe essere un intervento a pioggia sul canale della ristorazione: « Sospendere gli affitti e l’Iva non basta - dice - per bar e ristoranti sono necessari contributi a fondo perduto. Per tre mesi almeno, diciamo il tempo di rilanciare i consumi fuori casa » .
Rispetto al meno 30% vaticinato da Federalimentare, le previsioni appena pubblicate dall’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo appaiono più rosee: secondo l’ultima edizione del Food Monitor ( realizzata in collaborazione con Ceresio Investors) quest’anno il settore alimentare registrerà un calo del 5% soltanto e sarà pronto per rimbalzare già nel 2021, con una crescita attesa del 7,7% per l’intero comparto. Nel 2020 la marginalità commerciale scenderà, ma di poco, e naturalmente crescerà il tasso di indebitamento ( dal 2,2 del 2019 al 2,7 di fine anno), ma tutto - dicono da Pollenzo - rientrerà in carreggiata già a partire dal 2021. Export incluso, che nelle previsioni dell’ateneo farà segnare un aumento dell’ 11% nel biennio 2020- 2021.
Con quali strategie, dunque, il settore agroalimentare italiano potrà garantirsi questo rimbalzo? Le ricette sono numerose, la spinta sull’acceleratore dell’export è soltanto una di queste. Puntare sulla ripresa del turismo, per esempio, è importante per le Dop e le Igp più piccole. Lo sa bene Franco Moro, che è appena stato rieletto presidente del Consorzio della Bresaola della Valtellina: « I milanesi sono tornati sulle nostre montagne e noi vogliamo puntare su quelli più sportivi di loro: la bresaola è un alimento magro e ricco di proteine al tempo stesso, un alimento perfetto per chi fa attività all’aria aperta». Il salume simbolo della Valtellina ha sofferto parecchio durante il lockdown: perché è tra gli affettati più cari e perché erano pochi i consumatori che si avventuravano in coda al banco del fresco, nei giorni più bui della quarantena. Così, ora al consorzio serve un surplus di spirito di promozione.
Accanto alle denominazioni piccole, poi, ci sono le grandi Dop italiane, che sono state consumate in abbondanza durante i mesi dell’emergenza, ma che non sono per questo immuni dagli affanni. Quella del Parmigiano Reggiano, per esempio, si è trovata a dover affrontare un calo dei prezzi del 40% che rischia di compromettere seriamente il fatturato dei suoi produttori. Nonostante la crescita dei volumi di vendita nella grande distribuzione, le quotazioni del Parmigiano Reggiano all’origine hanno registrato negli ultimi mesi un calo importante a causa della riduzione delle vendite all’estero e della chiusura del canale Horeca, che non hanno saputo compensare il costante aumento della produzione degli ultimi anni (+ 31,5% in un decennio). Per non svalutare il prodotto, il Consorzio aveva un’unica via: quella di ritirare un certo quantitativo di forme dal mercato. Ecco perché l’assemblea dei soci ha votato l’acquisito, da parte del Consorzio, di 320mila forme prodotte tra l’ultimo quadrimestre del 2019 e il primo del 2020, che saranno conservate nei magazzini, fatte stagionare più a lungo e reimmesse progressivamente in commercio solo quando sarà possibile ottenere una remunerazione adeguata.
Vacondio (Federalimentare): «Abbiamo avuto meno danni di altri settori, ma per il 2020 prevediamo un calo del fatturato del 30%»