Per la maggioranza a luglio quattro voti da brivido al Senato
Al lungo elenco di nodi ora si aggiunge la rissa Pd-Iv sulla legge elettorale
Il decreto semplificazioni che slitta ancora, i nodi Autostrade ed ex Ilva ancora da sciogliere, il gelo che resiste tra il premier e il Pd, nonostante la tregua siglata con Nicola Zingaretti. E poi le fibrillazioni perenni in casa M5S, che in commissione Econ a Strasburgo ha votato insieme alla Lega contro un atto delegato sul Mes e che ha preso malissimo le aperture di Giuseppe Conte al Pd e a Forza Italia. Infine, come se non bastasse, lo scontro al vetriolo deflagrato ieri tra dem e renziani sulla legge elettorale.
È un mix esplosivo quello che accompagna la maggioranza ai voti “caldi” di luglio in Aula al Senato, dove M5S, Pd, Leu e Iv ormai viaggiano con appena sette voti di scarto (uno in più riconquistato grazie al passaggio del senatore azzurro Carbone nelle file dei renziani): il 15 sulle risoluzioni sulle comunicazioni di Giuseppe Conte alla vigilia del Consiglio Ue del 17-18, il 16 probabilmente sul decreto Rilancio. E poi prima della pausa estiva(le date ancora non ci sono) gli altri due passaggi chiave: la votazione sul nuovo scostamento di bilancio da circa 20 miliardi, per cui serve la maggioranza assoluta di 161 componenti, e quella che Conte vorrebbe incassare sul Dl semplificazioni, come prova all’Europa della capacità italiana di fare le riforme.
«Le premesse per un incidente ci sono tutte», confida un big pentastellato a taccuini chiusi. Anche perché le opposizioni, in particolare Lega e Fdi, proveranno a disseminare trappole, come avvenuto sul decreto elezioni. E il Carroccio proverà a insistere nella “campagna acquisti” di senatori Cinque Stelle. Anche se ieri una delle sorvegliate speciali, Marinella Pacifico, ha liquidato come «gossip» l’ipotesi di un suo passaggio nelle file leghiste. E l’altra indiziata, Tiziana Drago, ha rassicurato il capogruppo. Mentre tra i malpancisti il genovese Mattia Crucioli ha seccamente smentito: «La mia distanza dalla Lega è incolmabile».
Che il Movimento sia dinamite per il Governo ormai è acclarato. Così come evidenti sono gli equilibrismi a cui l’anarchia Cinque Stelle costringe il premier. Ieri Beppe Grillo è intervenuto a smentire le ricostruzioni che lo volevano critico nei confronti delle aperture di Conte a Fi, ma la pancia M5S è infuriata (persino Roberto Fico per il caso Regeni). Il problema è che tutto si tiene: i voti degli azzurri, se non già ora, sicuramente in autunno, potrebbero rivelarsi determinanti per compensare le defezioni nel M5S, in particolare sul Mes. E la sponda Pd è vitale.
È per questo che a Palazzo Chigi, dove Conte con i suoi collaboratori si dice tranquillo e punta a incassare le semplificazioni lunedì sera, non vedono di buon occhio la rissa tra Pd e Iv sulla legge elettorale, scoppiata proprio dopo che Matteo Renzi aveva smesso di cannoneggiare contro il premier. Ma i dem non vogliono restare schiacciati e passare da “frenatori”. Da qui l’ultimatum sulla legge elettorale: il proporzionale con sbarramento al 5%, su cui si era raggiunta un’intesa di massima nella maggioranza, va approvato in prima lettura prima del referendum del 20 settembre. «Questo governo esiste perché c’è un accordo: taglio dei parlamentari e nuova legge elettorale a garanzia della dialettica democratica per evitare un effetto ipermaggioritario», ripetono da Largo del Nazareno.
In un voto sul Fondo salva Stati a Strasburgo il M5S vota contro insieme alla Lega. Ipotesi maxi-rimpasto maxi- rimpasto
Ma il testo, calendarizzato alla Camera il 27 luglio, è ancora all’esame della commissione. E in Aula incombe l’incognita dei voti segreti.
Se Matteo Salvini, dalla Lega, ritiene il Pd “impaurito” dal voto e parla di una manovra «di stampo cinese, non democratica», è nella maggioranza che volano i coltelli. Renzi ribadisce che la legge elettorale «non è la priorità» del Paese, i suoi sono convinti che il Pd vuole aprire il cantiere della riforma elettorale per poter prendere tempo ed evitare le elezioni. I democratici a microfoni spenti accusano l’ex premier di avere un solo timore: non raggiungere la soglia del 5%. In questa confusione, tornano a circolare sospetti e veleni. Uno su tutti: che per uscire dall’impasse dopo le regionali si proceda a un maxi rimpasto. Aiuterebbe a premiare chi nel M5S si sente escluso e a placare i malumori soprattutto in Senato. Potrebbe permettere di concedere qualche incarico in più al Pd se i Cinque Stelle uscissero di nuovo fortemente ridimensionati al voto locale. E potrebbe magari consentire la presenza di qualche tecnico gradito ai moderati del centrodestra, per evitare un ingresso diretto del partito di Silvio Berlusconi. Sempre che Conte riesca a restare in sella.