Sabino Cassese «NELLA PA LO SMART WORKING È PER MOLTI UNA VACANZA»
L’ironia e il disincanto amaro dell’insigne giurista nel valutare il caos e la situazione del Paese. Il blocco amministrativo del lockdown
«Ab bbiamo biamo chiuso lo Stato. Con questa storia de l lo smart-working, abbiamo svuotato gli uffici della pubblica amministrazione. E, in più, il governo vuole assumere altri quattrocentomila dipendenti pubblici » .
Ci sono molti modi per invecchiare. Sabino Cassese – 84 anni – ha scelto lo stile meno pacifico ma più divertente. Anziché parlare con toni ieratici e tromboneggianti e anziché troncare e sopire – i due opposti atteggiamenti da “venerati maestri”, secondo la categoria di Edmondo Berselli – formula concetti con la precisione di un bambino che sceglie accuratamente i dardi da scagliare con la sua cerbottana. Non lo fa per épater les bourgeois. Perché – le bourgeois – è lui. Lo fa perché sa – lui che ha molto fatto, ha molto gestito, ha molto visto – che la forma più raffinata di potere è nel pensiero e che il suo esercizio più acuminato è la sua espressione.
Al Circolo Antico Tiro A Volo dei Parioli – nella sala da pranzo degli ospiti che dà sul Tevere – l’aria condizionata è bassa e, fuori, fa un gran caldo. Cassese è Cassese. È giudice emerito della Corte Costituzionale. È un caposcuola nella ricerca scientifica nel diritto amministrativo – ancora adesso insegna alla Luiss School of Government – ed esercita una paternità allargata su un profluvio di allievi che si trovano in innumerevoli gangli della società e della economia italiana, in particolare nella sua declinazione romana: le università, ma anche i ministeri, le società quotate ancora controllate dal Tesoro e la Corte dei Conti hanno molti suoi allievi in cattedra e ai vertici, nei consigli di amministrazione e negli organi di controllo.
Ma, soprattutto, in un Paese da tempo in mano a degli improvvisati mollemente adagiati sulla loro ignoranza, ha avuto una vita che è il ritratto della classe dirigente italiana del Novecento. Una cosa seria e dura, strutturata e anche dolorosa. Alberto Beneduce da Caserta, Enrico Mattei da Acqualagna e Raffaele Mattioli da Vasto sono i numi della tradizione italiana dei provinciali che hanno inciso sulle sorti del Paese. Lui, in fondo, appartiene a questa schiatta. « Sì – dice Cassese accettando il mio gioco – sono quattro volte provinciale: sono nato ad Atripalda a pochi chilometri da Avellino, sono cresciuto a Salerno, ho studiato al collegio giuridico della Scuola Normale di Pisa e ho insegnato ad Ancona, dove mi aveva chiamato Giorgio Fuà. In questo schema, che è tipicamente europeo, esistono tanti esempi reali e anche molta letteratura, come tutto il filone alla Balzac insegna » ». .
In questa tradizione, chi proviene dalla provincia ha la versatilità e l’energia per passare da un mondo all’altro, anche professionale e culturale: «A 23 anni ero borsista dell’Eni, dove facevo una ricerca sull’impresa pubblica, e allo stesso
NELLA NOSTRA PA È SEMPRE STATA SCONOSCIUTA LA PIÙ SEMPLICE RAZIONALITÀ ORGANIZZATIVA ED ECONOMICA
tempo autore della rivista “Sociologia” diretta da Don Sturzo che, tornato liberista dal suo viaggio in America, per fortuna non si è mai accorto della prima cosa. A 26 anni ero direttore dell’ufficio legislativo dell’Eni di Enrico Mattei » .
Provincia, ma anche mondo: Cassese è stato a lungo alla Stanford Law School, a Berkeley, al Nuffield College di Oxford e a Sciences. Po a Parigi. Mondo, ma anche Roma. Che, a suo modo, è un mondo. Mentre aspettiamo il menù, la nostra conversazione cade sulla Roma che – in questi primi giorni di luglio – sembra spegnersi lentamente. Una città – da lui intimamente conosciuta nella sua realtà e nella sua rappresentazione, nella sua quotidianità e nei suoi poteri – surreale: nelle strade non ci sono turisti, gli hotel sono semivuoti e appunto nei palazzi umbertini lavorano fisicamente in pochi, pochissimi. Intorno agli edifici della pubblica amministrazione – dal ministero dell’Economia e delle finanze al ministero degli Interni – molti bar e negozi hanno le serrande abbassate, in tanti hanno orari ridotti, parecchie edicole sono chiuse e chissà se riapriranno mai. « La salute prima di tutto, ci mancherebbe. Il problema è come questo utilizzo dello smart- working si è inserito sulla realtà consolidata e abituale. Nessuno, in Italia, ha mai controllato il lavoro della pubblica amministrazione. I livelli di produttività erano già bassi prima. Figuriamoci adesso. Per molti è stato, ed è tuttora, un grande periodo di vacanza » , dice mentre anticipa al cameriere che lui mangerà poco e non berrà nulla.
Un particolare novero di intellettuali sceglie una chiave interpretativa. E, con essa, analizza il mondo. Per rimanere in ambiente romano Alberto Moravia aveva il sesso. Elsa Morante i bambini. Renzo De Felice, nel lavoro di storico, il Ventennio fascista. Renato Guttuso, nei suoi quadri, il contrasto fra la natura e il popolo. Cassese, nella sua visione delle cose che dal diritto si espande alla storia, ha scelto la pubblica amministrazione. I libri che ha pubblicato negli anni – per esempio, con Il Mulino, “Il sistema amministrativo italiano” e “Governare gli italiani. Storia dello Stato” – ricostruiscono un profilo di lungo periodo di una delle strutture di maggiore continuità della vicenda italiana. Nel farlo assume un criterio weberiano di avalutatività oggettiva che è appunto utile anche per interpretare la contemporaneità e la stretta attualità. Per esempio la tragedia del Covid19 – con la risposta del tutti a casa, senza un autentico piano “pubblico” e senza un pensiero “politico” – ha mostrato i limiti e i difetti della nostra macchina dello Stato che, nel simbolo dei palazzi vuoti, sono sembrati gonfiarsi come bolle iridescenti color viola: « La pubblica amministrazione italiana – dice - ha una organizzazione pre- tayloristica. Nel senso che, davvero, perfino il basilare tempi e metodi che è all’origine della società industriale del Novecento non è mai stato assorbito. Questo, per dire che è stata sempre sconosciuta negli uffici italiani perfino la più semplice razionalità economica e organizzativa che ha permeato il secolo scorso e che, in altri Paesi, si è trasmessa al mondo degli uffici privati e pubblici. Altro che il passaggio ai modelli di flessibilizzazione estrema. Qui siamo a prima ancora del Taylorismo. Taylorismo che, peraltro, in Occidente ha avuto almeno quindici step evolutivi e che la nostra pubblica amministrazione si è persa in toto » .
Cassese prende degli spinaci all’agro: «No, niente scarola, grazie, ogni tanto ci mettete il peperoncino » », , dice al cameriere. Io, invece, scelgo prosciutto crudo di San Daniele con la mozzarella di bufala. L’Italia del Covid-19 sembra segnata dalla dimensione del vuoto. Vuoti gli uffici. Vuote le strade. Vuoti i poteri. « Il potere – sottolinea – ha una natura concreta e stabile, continua e persistente. Il potere può essere tragico. Oggi, invece, il potere si autopone e si autolegittima, secondo l’interpretazione dei sentimenti morali del popolo. Oggi il potere è ridotto all’esercizio di impulsi. Mi prude il braccio? E io mi gratto » . E, mentre lo dice, lo fa. Si gratta, con la mano sinistra, il braccio destro. « Oggi la realtà italiana sembra ispirata a una visione grottesca e distorta della “Teoria dei sentimenti morali” pubblicata da Adam Smith nel 1759, in una lettura paradossale di quel gran libro per cui ogni scelta è data da immedesimazione e episodicità. Oggi bisogna dargli al migrante. E allora diamogli al migrante. Questo si vede anche dalla rapida e mutevolissima oscillazione dei risultati elettorali».
Nel vuoto dei poteri, soltanto due elementi sembrano avere consistenza. « La politica è svuotata di tutto, con la prevalenza delle legislazioni di emergenza e con la pratica del Dpcm, il decreto della presidenza del consiglio dei ministri. Ma i parlamentari hanno un potere di interdizione: perché il decreto legge va sempre convertito in legge. E, a quel punto, succede di tutto. Nelle mediazioni e nelle scorribande. L’altro potere ancora attivo in Italia è quello della magistratura. Anzi, delle Procure. Con la pratica barbara della pubblicazione delle intercettazioni che ci rende un Paese incivile » .
Arriva il piatto principale. Lui ha preso un rombo. Io un salmone. «Ottima scelta, ieri ho avuto un altro pranzo di lavoro qui, e l’ho preso » , mi dice. Cassese è un intellettuale abituato a usare il canone del lungo periodo, della persistenza e della continuità. Ha mostrato, nei suoi libri, la consistenza e la durabilità delle strutture amministrative, delle relazioni e dei metodi di potere nella storia italiana. Palmiro Togliatti ministro della Giustizia dei Governi Parri e De Gasperi che, fra il 1945 e il 1946, sceglie come principale collaboratore Gaetano Azzariti, già presidente della Commissione sulla razza durante il fascismo, è uno dei tanti esempi. La questione che sembra adesso attanagliarlo – anche se tutto questo è filtrato attraverso la membrana della cultura e della esperienza di mondo, quello che Carlo Emilio Gadda definiva « una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto latino » – è l’assenza di pensiero e di strutturazione delle cose dell’Italia di oggi. « È tutto evanescenza, sono tutte bollicine » , dice osservando le bolle che esplodono mentre versa l’acqua minerale nei bicchieri.
Intanto, chiediamo la frutta. Io prendo le fragole. Lui le ciliegie: «Mi raccomando, che siano fredde, quasi ghiacciate. Mi piacciono così». Tutto evanescenza, tutte bollicine. Anche se, a rimanere sospesa nell’aria di questo incontro con Cassese, è più l’ironia del sarcasmo – più il divertimento della tragedia – nel gioco di perle del pensiero e della parola, prima e seconda forma del più acuminato dei poteri.