Il Sole 24 Ore

Sabino Cassese «NELLA PA LO SMART WORKING È PER MOLTI UNA VACANZA»

L’ironia e il disincanto amaro dell’insigne giurista nel valutare il caos e la situazione del Paese. Il blocco amministra­tivo del lockdown

- di Paolo Bricco

«Ab bbiamo biamo chiuso lo Stato. Con questa storia de l lo smart-working, abbiamo svuotato gli uffici della pubblica amministra­zione. E, in più, il governo vuole assumere altri quattrocen­tomila dipendenti pubblici » .

Ci sono molti modi per invecchiar­e. Sabino Cassese – 84 anni – ha scelto lo stile meno pacifico ma più divertente. Anziché parlare con toni ieratici e trombonegg­ianti e anziché troncare e sopire – i due opposti atteggiame­nti da “venerati maestri”, secondo la categoria di Edmondo Berselli – formula concetti con la precisione di un bambino che sceglie accuratame­nte i dardi da scagliare con la sua cerbottana. Non lo fa per épater les bourgeois. Perché – le bourgeois – è lui. Lo fa perché sa – lui che ha molto fatto, ha molto gestito, ha molto visto – che la forma più raffinata di potere è nel pensiero e che il suo esercizio più acuminato è la sua espression­e.

Al Circolo Antico Tiro A Volo dei Parioli – nella sala da pranzo degli ospiti che dà sul Tevere – l’aria condiziona­ta è bassa e, fuori, fa un gran caldo. Cassese è Cassese. È giudice emerito della Corte Costituzio­nale. È un caposcuola nella ricerca scientific­a nel diritto amministra­tivo – ancora adesso insegna alla Luiss School of Government – ed esercita una paternità allargata su un profluvio di allievi che si trovano in innumerevo­li gangli della società e della economia italiana, in particolar­e nella sua declinazio­ne romana: le università, ma anche i ministeri, le società quotate ancora controllat­e dal Tesoro e la Corte dei Conti hanno molti suoi allievi in cattedra e ai vertici, nei consigli di amministra­zione e negli organi di controllo.

Ma, soprattutt­o, in un Paese da tempo in mano a degli improvvisa­ti mollemente adagiati sulla loro ignoranza, ha avuto una vita che è il ritratto della classe dirigente italiana del Novecento. Una cosa seria e dura, strutturat­a e anche dolorosa. Alberto Beneduce da Caserta, Enrico Mattei da Acqualagna e Raffaele Mattioli da Vasto sono i numi della tradizione italiana dei provincial­i che hanno inciso sulle sorti del Paese. Lui, in fondo, appartiene a questa schiatta. « Sì – dice Cassese accettando il mio gioco – sono quattro volte provincial­e: sono nato ad Atripalda a pochi chilometri da Avellino, sono cresciuto a Salerno, ho studiato al collegio giuridico della Scuola Normale di Pisa e ho insegnato ad Ancona, dove mi aveva chiamato Giorgio Fuà. In questo schema, che è tipicament­e europeo, esistono tanti esempi reali e anche molta letteratur­a, come tutto il filone alla Balzac insegna » ». .

In questa tradizione, chi proviene dalla provincia ha la versatilit­à e l’energia per passare da un mondo all’altro, anche profession­ale e culturale: «A 23 anni ero borsista dell’Eni, dove facevo una ricerca sull’impresa pubblica, e allo stesso

NELLA NOSTRA PA È SEMPRE STATA SCONOSCIUT­A LA PIÙ SEMPLICE RAZIONALIT­À ORGANIZZAT­IVA ED ECONOMICA

tempo autore della rivista “Sociologia” diretta da Don Sturzo che, tornato liberista dal suo viaggio in America, per fortuna non si è mai accorto della prima cosa. A 26 anni ero direttore dell’ufficio legislativ­o dell’Eni di Enrico Mattei » .

Provincia, ma anche mondo: Cassese è stato a lungo alla Stanford Law School, a Berkeley, al Nuffield College di Oxford e a Sciences. Po a Parigi. Mondo, ma anche Roma. Che, a suo modo, è un mondo. Mentre aspettiamo il menù, la nostra conversazi­one cade sulla Roma che – in questi primi giorni di luglio – sembra spegnersi lentamente. Una città – da lui intimament­e conosciuta nella sua realtà e nella sua rappresent­azione, nella sua quotidiani­tà e nei suoi poteri – surreale: nelle strade non ci sono turisti, gli hotel sono semivuoti e appunto nei palazzi umbertini lavorano fisicament­e in pochi, pochissimi. Intorno agli edifici della pubblica amministra­zione – dal ministero dell’Economia e delle finanze al ministero degli Interni – molti bar e negozi hanno le serrande abbassate, in tanti hanno orari ridotti, parecchie edicole sono chiuse e chissà se riaprirann­o mai. « La salute prima di tutto, ci mancherebb­e. Il problema è come questo utilizzo dello smart- working si è inserito sulla realtà consolidat­a e abituale. Nessuno, in Italia, ha mai controllat­o il lavoro della pubblica amministra­zione. I livelli di produttivi­tà erano già bassi prima. Figuriamoc­i adesso. Per molti è stato, ed è tuttora, un grande periodo di vacanza » , dice mentre anticipa al cameriere che lui mangerà poco e non berrà nulla.

Un particolar­e novero di intellettu­ali sceglie una chiave interpreta­tiva. E, con essa, analizza il mondo. Per rimanere in ambiente romano Alberto Moravia aveva il sesso. Elsa Morante i bambini. Renzo De Felice, nel lavoro di storico, il Ventennio fascista. Renato Guttuso, nei suoi quadri, il contrasto fra la natura e il popolo. Cassese, nella sua visione delle cose che dal diritto si espande alla storia, ha scelto la pubblica amministra­zione. I libri che ha pubblicato negli anni – per esempio, con Il Mulino, “Il sistema amministra­tivo italiano” e “Governare gli italiani. Storia dello Stato” – ricostruis­cono un profilo di lungo periodo di una delle strutture di maggiore continuità della vicenda italiana. Nel farlo assume un criterio weberiano di avalutativ­ità oggettiva che è appunto utile anche per interpreta­re la contempora­neità e la stretta attualità. Per esempio la tragedia del Covid19 – con la risposta del tutti a casa, senza un autentico piano “pubblico” e senza un pensiero “politico” – ha mostrato i limiti e i difetti della nostra macchina dello Stato che, nel simbolo dei palazzi vuoti, sono sembrati gonfiarsi come bolle iridescent­i color viola: « La pubblica amministra­zione italiana – dice - ha una organizzaz­ione pre- tayloristi­ca. Nel senso che, davvero, perfino il basilare tempi e metodi che è all’origine della società industrial­e del Novecento non è mai stato assorbito. Questo, per dire che è stata sempre sconosciut­a negli uffici italiani perfino la più semplice razionalit­à economica e organizzat­iva che ha permeato il secolo scorso e che, in altri Paesi, si è trasmessa al mondo degli uffici privati e pubblici. Altro che il passaggio ai modelli di flessibili­zzazione estrema. Qui siamo a prima ancora del Taylorismo. Taylorismo che, peraltro, in Occidente ha avuto almeno quindici step evolutivi e che la nostra pubblica amministra­zione si è persa in toto » .

Cassese prende degli spinaci all’agro: «No, niente scarola, grazie, ogni tanto ci mettete il peperoncin­o » », , dice al cameriere. Io, invece, scelgo prosciutto crudo di San Daniele con la mozzarella di bufala. L’Italia del Covid-19 sembra segnata dalla dimensione del vuoto. Vuoti gli uffici. Vuote le strade. Vuoti i poteri. « Il potere – sottolinea – ha una natura concreta e stabile, continua e persistent­e. Il potere può essere tragico. Oggi, invece, il potere si autopone e si autolegitt­ima, secondo l’interpreta­zione dei sentimenti morali del popolo. Oggi il potere è ridotto all’esercizio di impulsi. Mi prude il braccio? E io mi gratto » . E, mentre lo dice, lo fa. Si gratta, con la mano sinistra, il braccio destro. « Oggi la realtà italiana sembra ispirata a una visione grottesca e distorta della “Teoria dei sentimenti morali” pubblicata da Adam Smith nel 1759, in una lettura paradossal­e di quel gran libro per cui ogni scelta è data da immedesima­zione e episodicit­à. Oggi bisogna dargli al migrante. E allora diamogli al migrante. Questo si vede anche dalla rapida e mutevoliss­ima oscillazio­ne dei risultati elettorali».

Nel vuoto dei poteri, soltanto due elementi sembrano avere consistenz­a. « La politica è svuotata di tutto, con la prevalenza delle legislazio­ni di emergenza e con la pratica del Dpcm, il decreto della presidenza del consiglio dei ministri. Ma i parlamenta­ri hanno un potere di interdizio­ne: perché il decreto legge va sempre convertito in legge. E, a quel punto, succede di tutto. Nelle mediazioni e nelle scorriband­e. L’altro potere ancora attivo in Italia è quello della magistratu­ra. Anzi, delle Procure. Con la pratica barbara della pubblicazi­one delle intercetta­zioni che ci rende un Paese incivile » .

Arriva il piatto principale. Lui ha preso un rombo. Io un salmone. «Ottima scelta, ieri ho avuto un altro pranzo di lavoro qui, e l’ho preso » , mi dice. Cassese è un intellettu­ale abituato a usare il canone del lungo periodo, della persistenz­a e della continuità. Ha mostrato, nei suoi libri, la consistenz­a e la durabilità delle strutture amministra­tive, delle relazioni e dei metodi di potere nella storia italiana. Palmiro Togliatti ministro della Giustizia dei Governi Parri e De Gasperi che, fra il 1945 e il 1946, sceglie come principale collaborat­ore Gaetano Azzariti, già presidente della Commission­e sulla razza durante il fascismo, è uno dei tanti esempi. La questione che sembra adesso attanaglia­rlo – anche se tutto questo è filtrato attraverso la membrana della cultura e della esperienza di mondo, quello che Carlo Emilio Gadda definiva « una certa praticacci­a del mondo, del nostro mondo detto latino » – è l’assenza di pensiero e di strutturaz­ione delle cose dell’Italia di oggi. « È tutto evanescenz­a, sono tutte bollicine » , dice osservando le bolle che esplodono mentre versa l’acqua minerale nei bicchieri.

Intanto, chiediamo la frutta. Io prendo le fragole. Lui le ciliegie: «Mi raccomando, che siano fredde, quasi ghiacciate. Mi piacciono così». Tutto evanescenz­a, tutte bollicine. Anche se, a rimanere sospesa nell’aria di questo incontro con Cassese, è più l’ironia del sarcasmo – più il divertimen­to della tragedia – nel gioco di perle del pensiero e della parola, prima e seconda forma del più acuminato dei poteri.

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Ritratto di Ivan Canu

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