La jihad punta sui tesori dell’Africa
Gas, miniere d’oro, cobalto e diamanti: le regioni più dotate di risorse naturali sono entrate nel mirino dei fondamentalisti islamici, che non mirano solo al controllo delle ricchezze. Sono lì per fare proselitismo
Dal Mozambico al Congo, dal Burkina Faso al Mali: le regioni dell’Africa dotate di grandi risorse naturali sono nel mirino dei fondamentalisti islamici. Che spesso però non puntano solo a prendere il controllo di giacimenti, miniere o stabilimenti: in alcuni casi l’obiettivo principale dei jihadisti è fare proselitismo, sfruttando la disperazione, la miseria e la rabbia di popolazioni in cui il business ha solo esacerbato le diseguaglianze.
Un decennio fa, in Mozambico, la scoperta di giacimenti di gas naturale sulla costa di Cabo Delgado era stata accolta come « la svolta» per una delle economie più povere dell’Africa. Così è stato, ma non nel verso atteso. Nel 2020, in piena emergenza Covid- 19, la repubblica guidata da Filipe Nyusi è nel vivo di una insorgenza jihadista che imperversa proprio a Cabo Delgado, la regione al confine nord con la Tanzania che ha attirato i progetti miliardari di colossi come ExxonMobil, Total, Eni e la China National Petroleum Corporation.
Lo sviluppo di gas naturale liquefatto nell’area vale l’equivalente di 60 miliardi di dollari, con 30 miliardi previsti solo da ExxonMobil, Eni e Cnpc per il maxi-progetto di «Rovuma Lng Project». Ma il vagheggio di una «Doha africana» è minacciato dalla crescita delle violenze, il colpo di grazia su un anno affossato già dal crollo dei prezzi dell’energia e l’epidemia di Covid-19. L’attacco più recente si è consumato il 27 giugno a Mocimboa de Praia, una località a 60 chilometri dagli stabilimenti di Total ed ExxonMobil, con un bilancio di otto vittime e tre dispersi fra i dipendenti di un’azienda privata. L’ultimo blitz su una scia che si è lasciata alle spalle, secondo il database sulla sicurezza internazionale Acled, 1.529 vittime nel paese tra 2017 e 2020, oltre ad almeno 200mila sfollati in fuga da comunità finite nel bersaglio o sotto il sequestro delle milizie.
Il caso del Mozambico, fino a pochi anni fa risparmiato dalle incursioni che funestano altre aree del Continente, riproduce un copione già visto in Africa: la presenza di gruppi armati che si dichiarano o si sospettano «jihadisti» in prossimità di regioni ricche di materie prime. Dalla stessa Cabo Delgado alle miniere del Congo, per spingersi nella regione più martoriata dalla proliferazione delle violenze: il Sahel. La coincidenza fra presenza terroristica e disponibilità di risorse può favorire l’interpretazione più scontata, quella di gruppi decisi ad arricchirsi con le materie che abbondano nel sottosuolo.
Ma i comportamenti e le strategie dei gruppi terroristici sparpagliati nell’Africa rivelano un quadro più articolato, dove l’appropriamento di risorse è una chiave che funziona per alcuni Paesi e regge meno nel caso di altri. Il Mozambico ne è un esempio. L’escalation terroristica, capeggiata da un gruppo che si fa chiamare Ansar al-Sunna e rivendica affiliazioni allo Stato islamico, è sì legata al business miliardario in via di sviluppo a Cabo Delgado. Ma l’obiettivo non è tanto strappare il controllo dei giacimenti, quanto fare proselitismo sulla rabbia della popolazione per le «promesse tradite» di un business che ha solo esacerbato le disuguaglianze.
Le comunità locali, spiega il ricercatore Ispi Camillo Casola, si percepiscono escluse dai benefici e hanno anzi dovuto subire espropriazioni forzate o vedersi «escluse dalle attività produttive tradizionali, come pesca e agricoltura di sussistenza». La debolezza delle autorità non è d’aiuto, con un ricorso a repressione ed esecuzioni sommarie che fa il gioco dei jihadisti. « Le ragioni del conflitto sono disuguaglianza, povertà e l’assenza di un’amministrazione statale credibile ed efficace - riassume Alex Vines, esperto di sicurezza e direttore dell’Africa Program al Chatham House, un think tank - Magari nell’immediato la risposta militare è necessaria, ma sul lungo termine serve una politica di sviluppo » .
Ovviamente, le ragioni «ideologiche» non escludono che le milizie possano attingere anche alle materie prime come forma di finanziamento o potere economico. Nella Repubblica democratica del Congo, diversi gruppi armati si contendono il controllo delle risorse minerarie delle province di Kivu del Nord e Ituri. Il Paese detiene il 50% delle riserve globali di cobalto, oltre una ricchezza vastissima di oro, diamanti e rame. Eppure oltre il 70% della popolazione vive sotto le soglie della povertà estrema, asticella scandita da una media di 1,9 dollari al giorno. Uno squilibrio perfetto per alimentare la retorica dei gruppi armati e «legittimare» l’acquisizione diretta delle risorse, sempre con l’appiglio propagandistico della repressione delle autorità.
Nelle province meridionali di Haut-Katanga and Lualaba si sono scatenati malumori dopo che le forze di sicurezza hanno espulso 10mila minatori artigianali dai siti industriali della regione. L’ideale per favorire l’arruolamento nei gruppi armati, visto che la privazione di mezzi di sussistenza «rende le persone più vulnerabili al reclutamento nei gruppi violenti, jihadisti o no», dice Anouk S. Rigterink, Economics of Conflict Fellow all’International Crisis Group. Nel Sahel, la scoperta di un filone aurifero nel 2012 ha innescato un conflitto analogo tra miniere private e «artigianali», complicando uno scenario già deteriorato con la proliferazione di cellule jihadiste.
Il Crisis group stima che solo tra Burkina Faso, Mali e Niger l’estrazione artigianale valga fino all’equivalente di 4,5 miliardi di dollari, dando lavoro a un bacino di 2 milioni di persone. Inevitabile che l’approdo di aziende straniere e controlli governativi, sia pure maldestri, vengano vissuti come un’ingiustizia. Anche qui, come in Mozambico e Congo, il malcontento per la repressione ha favorito la crescita e il reclutamento di gruppi armati. E anche qui i gruppi hanno individuato nelle miniere un canale di finanziamento, sia in forma diretta con l’appropriamento dell’oro, sia in forma indiretta con servizi di «protezione» a pagamento dei minatori artigianali o la riscossione di zakat, tasse religiose.
I valori in gioco non sono marginali, se si considera che 24 dei siti attaccati dai gruppi armati in Burkina Faso producono un totale di oltre 720 kg del metallo. L’oro, sottolinea il ricercatore della Scuola Superiore Sant’Anna Luca Raineri, è una voce secondaria nel finanziamento dei gruppi rispetto ai business più remunerativi del rapimento o del traffico lungo le rotte sahariane. Ma sta aumentando il suo peso specifico, complice la contrazione di altre fonti di entrate e l’urgenza di «diversificare» gli affari. Nel frattempo, le violenze continuano. Secondo una ricostruzione di José Luengo Cabrera, un analista del Crisis Group, Burkina Faso, Mali e Niger hanno registrato un totale di 2.619 vittime di attacchi solo fra gennaio 2019 e 2020. Undici volte quante ne ha mietute, in quei tre stessi paesi, il Covid-19.
Dove regnano povertà e ineguaglianze, le milizie sfruttano la rabbia della popolazione per le promesse tradite