Musei, il tesoretto nascosto post lockdown
Il rapporto tra musei e digitale è oggetto di un dibattito che si protrae da anni. In alcuni casi si è posta l’attenzione sulla digitalizzazione dei repertori, in altri sulla comunicazione, spesso si è parlato solo di tecnologie e poco di strategie. E in ogni caso arrivati all’emergenza del lockdown la risposta è stata “timida”: qualcosa ha fatto il Museo Egizio di Torino, il Poldi Pezzoli di Milano, è stato particolarmente attivo il Maxxi di Roma. Solo i musei (pochi) già attrezzati hanno saputo promuovere fondi e spazi. Di fatto i musei sono poco attrezzati, sia dal punto di vista delle infrastrutture che delle professionalità interne. Soprattutto nel rapporto con l’estero si segnala un certo divario.
Ai nostri musei manca una cabina di regia che metta in relazione archivi, fondi, comunicazione e didattica. E quindi non abbiamo potuto mettere in campo lo splendido programma online dei Berliner Philarmoniker, oppure il prezioso progetto editoriale del MoMA di New York che hanno rilasciato contenuti diversi all’interno di un modello di rivista online con indici e collegamenti intratestuali. Per non parlare di quello che è ormai indicato come il modello vincente, il Rijksmuseum di Amsterdam con la sua variegata proposta digitale tra partecipazione, condivisione e gamification. Ma operazioni come queste sono il risultato di anni di impostazione e di crescita di professionalità specifiche.
Eppure alcuni dati offrono una lettura ottimistica. Il report dell’Osservatorio Culturale del Piemonte in collaborazione con Abbonamento Musei e Politecnico di Torino (Architettura) sui consumi culturali durante il lockdown si basa su 3.600 interviste realizzate a un pubblico di consumatori culturali forti, con un buon grado di istruzione, abbonati ai musei nelle aree prevalentemente del Piemonte (58%) e della Lombardia (39%). Iniziamo
con un dato che potrebbe sembrare modesto: il 7% ha acceso nuovi abbonamenti durante il lockdown. Ricordiamoci però che siamo di fronte a un campione che ha una buona predisposizione alla tecnologia: il 46% ha dichiarato di aver aumentato l’uso dei servizi digitali già in possesso e più del 50% ha fruito di almeno quattro tipologie di contenuti culturali tra ebook, videogame, film e serie. Se uno su dieci era a conoscenza dell’offerta culturale digitale dei musei, sei non ne hanno fruito. Anche questo dato va però interpretato nel momento in cui spesso l’offerta era minima e mal comunicata. Tra quei fruitori solo il 4% non ha gradito, il 62% ha gradito molto o addirittura moltissimo. Nonostante la poca comunicazione e spesso la scarsa professionalità dei materiali, troviamo un interesse alto tra i consumatori forti.
Questo significa che queste forme sono un tesoretto che i musei dovrebbero preservare e sviluppare, anche perché il dato più interessante è che 8 su 10 vorrebbero continuare a fruire dei contenuti digitali dei musei, anzi proprio il ritorno all’esperienza vissuta spinge verso un approfondimento in remoto che si colloca prima e dopo la visita. Circa il 61% è disponibile, per esempio, a continuare a usufruire di tour virtuali, anche a pagamento. Così, se è vero che la maggior parte delle persone durante il lockdown ha privilegiato i contenuti gratuiti, non c’è diffidenza verso il pagamento.
Certo, il livello di professionalizzazione deve alzarsi. Servono infrastrutture digitali, ma anche competenze e professionalità nuove in grado di progettare una digitalizzazione pensata e una strategia che unisca comunicazione, formazione, didattica ed esperienze in remoto. Una strategia che lavori anche sull’internazionalizzazione dei nostri musei e sull’engagement di nuovi pubblici.