Libano, il premier Diab si dimette e accusa: corrotti più forti dello Stato
In carica solo da gennaio, il Governo non è riuscito a rilanciare l’economia Dopo il disastro del Porto continuano proteste e scontri con la polizia
Il governo libanese si è dimesso in seguito alle proteste di piazza per l’esplosione che martedì scorso ha devastato interi quartieri di Beirut. Lo ha annunciato ieri il primo ministro Hassan Diab, dopo che nel corso del fine settimana si erano dimessi tre ministri ed era pronto a lasciare l’incarico anche il ministro delle Finanze, Ghazi Wazni.Il disastro di martedì «è il risultato di una corruzione più forte dello Stato», ha detto il primo ministro Diab.
«Oggi facciamo un passo indietro per stare al fianco del popolo». Non è durato nemmeno otto mesi quel nuovo Governo che doveva essere l’Esecutivo della speranza, capace di traghettare il Libano fuori dalla crisi economica più grave della sua giovane storia.
Hassan Diab, entrato in carica come primo ministro il 20 gennaio del 2020, ha rassegnato le dimissioni, annunciando così la sua scelta in un discorso televisivo alla nazione per poi recarsi nella residenza del presidente della Repubblica Michel Aoun. Ancora prigioniero delle logiche settarie e confessionali (in Libano il premier deve essere musulmano sciita, il capo del Parlamento sciita, ed il presidente della Repubblica cristiano maronita), e di una spartizione dei poteri che spesso e volentieri è ricorsa alla corruzione, questo Governo Diab non aveva praticamente fatto nulla. Ma il premier dimissionario ha voluto sottolineare, ancora una volta, il ruolo di una corruzione ormai trentennale. «È il risultato di una corruzione cronica» ha precisato Diab, riferendosi al disastro di martedì, per poi togliersi qualche sassolino dalla scarpa; in Libano «c’è una classe politica che sta resistendo con tutti i mezzi per impedire il cambiamento. Sapevano che noi eravamo una minaccia per loro».
Il premier era stato costretto a dichiarare il default lo scorso nove marzo, saltando così il pagamento di un eurobond da 1,2 miliardi di euro, e annunciando il mancato pagamento anche delle scadenze future (per quasi 90 miliardi). Il devastante rapporto debito/Pil (sopra al 170%), un’inflazione galoppante che sta avvicinandosi all’iperinflazione, una svalutazione della valuta locale dell’80% in pochi mesi sul dollaro americano (sul mercato non ufficiale), una disoccupazione ormai insostenibile avevano trascinato la gente in piazza già in ottobre con un serie di proteste pacifiche e trasversali che non si erano mai viste.
Se la scelta di Diab non era obbligata, poco ci mancava. Tra domenica e lunedì avevano già annunciato di voler abbandonare il governo quattro ministri (Giustizia, Informazione, Ambiente e Finanze) e il 3 di agosto li aveva preceduti quello degli Esteri, furenti per la corruzione endemica e l’inazione del Governo davanti alla crisi.
Le dimissione di Diab non sono state affatto gradite dal presidente del Parlamento, Nabih Berri, esponente di punta del partito sciita Amal. Berri aveva infatti chiesto al governo di rimanere in carica fino a giovedì in modo che fosse il Parlamento a sfiduciarlo con un voto, in modo da responsabilizzare soprattutto l’Esecutivo.
Dal dolore per i morti e la devastazione i libanesi sono presto passati alla rabbia nei confronti della classe al potere. E chi non ipotizza un atto doloso nel disastro di martedì scorso, addossa comunque ai governanti l’irresponsabilità di aver lasciato nel porto praticamente incustodite 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, pronte ad esplodere al primo incendio.
In attesa della formazione di un nuovo esecutivo, quello di Diab sarà incaricato di svolgere gli affari correnti. E non è improbabile che Diab faccia il premier ad interim più a lungo di quanto abbia fatto quello con pieni poteri.
Intanto il Libano continua ad essere teatro di scontri tra i dimostranti e le forze di polizia. Anche ieri è stato un giorno di gas lacrimogeni e feriti. Nel mentre la commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulle esplosioni di martedì avrebbe concluso il suo primo rapporto (non sono stati diffusi i contenuti). Ci vorrà molto tempo, se mai si riuscirà, per rimettere in piedi il Libano, il regno delle banche, e soprattutto evitare che possa divenire uno Stato fallito al pari di Venezuela e Zimbabwe, come i più pessimisti ormai non escludono più. Già prima dell’esplosione metà della popolazione era precipitata sotto la soglia di povertà relativa, ed un quarto sotto quella di povertà assoluta. Le cose nei prossimi mesi non possono che peggiorare. Alcuni analisti parlano di tre quarti della popolazione sotto la soglia relativa di povertà entro fine anno.
La distruzione del porto di Beirut, da cui transitava l’80% delle merci in un Paese che acquista all’estero quasi tutto quello che consuma, renderà molto più difficile l’invio di aiuti adeguati. E se non arriveranno subito sufficienti partite di generi alimentari e farmaci, ha avvertito l’Onu, il Paese rischia una crisi umanitaria.
Domenica scorsa, durante un vertice virtuale organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron, i Paesi donatori si sono impegnati a donare al Libano aiuti per un valore di 297 milioni di dollari. Una cifra ragguardevole ma ancora insufficiente. Le autorità libanesi stimano in 3 miliardi i danni diretti causati dall’esplosione alle infrastrutture e in 15 miliardi i danni complessivi che hanno coinvolto la popolazione, provocando 300mila sfollati nella capitale. Ma prima di sbloccare altri aiuti gli Stati donatori, preoccupati per l’endemica corruzione, hanno precisato che gli stessi debbano essere consegnati direttamente al popolo libanese. Il nemico più insidioso è proprio la corruzione.