Il Sole 24 Ore

DEDUZIONI, AGEVOLAZIO­NI E BONUS MELE AVVELENATE DI UN FISCO INIQUO

- Mario Baldassarr­i

Una subdola vecchietta offrì a Biancaneve una bellissima mela avvelenata. Negli ultimi 20 anni all’economia e alla società italiane sono state propinate centinaia di mele attraenti, ma tossiche. Si chiamano deduzioni, agevolazio­ni e bonus fiscali, dette collettiva­mente tax expenditur­es.

Una prima rilevazion­e ufficiale del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef) qualche anno fa certificò che queste ammontavan­o a circa 160 miliardi di euro all’anno. Nel 2018 il Rapporto della commission­e Marè, sempre del Mef, ha rivisto tale elenco e ha limitato le voci per una eventuale revisione a circa 80 miliardi di euro. Nelle quasi 200 pagine del rapporto si descrivono le centinaia di agevolazio­ni e riduzioni a pioggia introdotte con centinaia di leggi e provvedime­nti sedimentat­i nei decenni come stratifica­zioni geologiche delle diverse ere politiche e delle lobby che di volta in volta sono riuscite a ottenerle.

All’interno di quei numeri emergono anche agevolazio­ni e riduzioni fiscali in contraddiz­ione tra loro. Faccio due esempi. Il primo è l’incentivo fiscale al trasporto merci su gomma e quello al trasporto merci su ferrovia. Se si incentivan­o tutti, non si incentiva nessuno, ma si fa un favore a tutte le consorteri­e contrappos­te. Il secondo sono i sussidi ambientali che, per il 2017, il ministero dell’Ambiente ha certificat­o in 41 miliardi di euro. Di questi, 19 miliardi sono considerat­i ambientalm­ente dannosi (prevalente­mente concessi a favore di settori energivori e alle produzioni di energia con combustibi­li fossili), 15 miliardi ambientalm­ente favorevoli ( concessi ai settori che producono energia con fonti rinnovabil­i), circa 7 miliardi di euro di incerta attribuzio­ne. Un’altra cesta di mele avvelenate è rappresent­ata dai circa 50 miliardi di euro all’anno di trasferime­nti a fondo perduto in conto corrente e in conto capitale, 1.000 miliardi negli ultimi venti anni.

A fronte della pandemia, il governo ha introdotto una ulteriore pioggia di agevolazio­ni fiscali e bonus: dalle biciclette e monopattin­i elettrici fino ai recenti bonus casalinghe e agli sgravi contributi­vi di 6 mesi per chi assume o di 4 mesi per chi richiama lavoratori dalla cassa integrazio­ne. Tanti piccoli secchi d’acqua con la pretesa di vedere spuntare l’erba nel deserto economico e sociale del prossimo autunno. L’effetto economico di tutte queste agevolazio­ni, sgravi e bonus è modesto, i miliardi impegnati sono soldi in deficit con debito futuro da ripagare che non attivano crescita e occupazion­e e, quindi, in gran parte buttati al vento.

Ma al di là degli effetti economici, queste agevolazio­ni fiscali, bonus e fondi perduti erogati a pioggia ledono un principio costituzio­nale: quello della libertà economica dei cittadini e delle imprese. Non sono un costituzio­nalista, quindi mi limito a ragionare

TAX EXPENDITUR­ES E TRASFERIME­NTI A FONDO PERDUTO COSTANO MILIARDI MA CREANO POCA OCCUPAZION­E

da economista.

In Italia il reddito prodotto da famiglie e imprese viene “incamerato” dal bilancio pubblico con entrate totali di 850 miliardi di euro, pari al 47% del Pil (43% di pressione fiscale e 4% di altre entrate). Se si consideran­o gli oltre 100 miliardi di evasione, si vede che chi paga onestament­e tutte le tasse ha un pressione fiscale che sfiora il 60%. Più sempliceme­nte, un lavoratore che “costa” all’impresa 3.000 euro al mese si ritrova in busta paga un netto di 1.500 euro. Dopodiché lo Stato, dopo avergli dimezzato lo stipendio, pretende con agevolazio­ni e bonus di dire a quel lavoratore cosa farne dei restanti 1.500 euro e cioè se andare in vacanza o in pizzeria o se comprare un monopattin­o o un mobile da cucina.

Qualche anno fa è stato introdotto in Costituzio­ne un vincolo sull’azzerament­o del deficit pubblico. Da senatore non l’ho votato. Per due motivi: il vincolo sul deficit imposto da Maastricht, come detto da autorevoli europeisti, era “stupido” perché lasciava governi e parlamenti liberi di aumentare sia le tasse che la spesa pubblica, di aumentare cioè il “peso” dello Stato rispetto alle libertà di scelta dei cittadini; il problema non è il deficit di per sé, ma “cosa” si fa con quel deficit. In sostanza, il deficit pubblico va riferito esclusivam­ente a investimen­ti.

Il vero patto costituzio­nale tra Stato e cittadini deve allora riguardare il tetto al totale delle entrate in rapporto al Pil. Questo è lo spartiacdi que tra scelte individual­i dei cittadini per acquisto di beni privati e dovere di partecipar­e alle scelte collettive per la fornitura di servizi e beni pubblici.

Pertanto, di fatto, siamo tutti cittadini e imprese “a mezzadria” con lo Stato, esclusi ovviamente gli evasori. Siamo cioè vicini a un Paese a “socialismo reale” di sovietica memoria. Si ricorderà che in quella esperienza lo Stato “decideva” cosa e quanto i cittadini potevano e dovevano comprare. Lo faceva con la fissazione di prezzi politici decisi dal pianificat­ore centrale. Ma si ricorderà anche che andavano esaurite in pochi giorni le scarpe numero 40 e rimanevano invendute quelle numero 48. Per di più si diceva che era stata sconfitta l’inflazione (come qualcuno in Italia ha annunciato in pompa magna la sconfitta della povertà). In realtà era solo stata mascherata nelle file di attesa davanti ai negozi vuoti e nei magazzini gonfi di merci invendibil­i.

È allora evidente che se quelle decine e decine di miliardi di tax expenditur­es e fondi perduti, fossero utilizzati per varare una seria, forte e struttural­e riforma dell’Irpef e della tassazione delle imprese, gli effetti sulla ripresa dei consumi e degli investimen­ti sarebbero molto più forti e, soprattutt­o, famiglie e imprese sarebbero “più “più libere” di decidere come spendere il reddito da loro prodotto, rispettand­o meglio il sacrosanto principio della nostra Costituzio­ne.

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