DEDUZIONI, AGEVOLAZIONI E BONUS MELE AVVELENATE DI UN FISCO INIQUO
Una subdola vecchietta offrì a Biancaneve una bellissima mela avvelenata. Negli ultimi 20 anni all’economia e alla società italiane sono state propinate centinaia di mele attraenti, ma tossiche. Si chiamano deduzioni, agevolazioni e bonus fiscali, dette collettivamente tax expenditures.
Una prima rilevazione ufficiale del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef) qualche anno fa certificò che queste ammontavano a circa 160 miliardi di euro all’anno. Nel 2018 il Rapporto della commissione Marè, sempre del Mef, ha rivisto tale elenco e ha limitato le voci per una eventuale revisione a circa 80 miliardi di euro. Nelle quasi 200 pagine del rapporto si descrivono le centinaia di agevolazioni e riduzioni a pioggia introdotte con centinaia di leggi e provvedimenti sedimentati nei decenni come stratificazioni geologiche delle diverse ere politiche e delle lobby che di volta in volta sono riuscite a ottenerle.
All’interno di quei numeri emergono anche agevolazioni e riduzioni fiscali in contraddizione tra loro. Faccio due esempi. Il primo è l’incentivo fiscale al trasporto merci su gomma e quello al trasporto merci su ferrovia. Se si incentivano tutti, non si incentiva nessuno, ma si fa un favore a tutte le consorterie contrapposte. Il secondo sono i sussidi ambientali che, per il 2017, il ministero dell’Ambiente ha certificato in 41 miliardi di euro. Di questi, 19 miliardi sono considerati ambientalmente dannosi (prevalentemente concessi a favore di settori energivori e alle produzioni di energia con combustibili fossili), 15 miliardi ambientalmente favorevoli ( concessi ai settori che producono energia con fonti rinnovabili), circa 7 miliardi di euro di incerta attribuzione. Un’altra cesta di mele avvelenate è rappresentata dai circa 50 miliardi di euro all’anno di trasferimenti a fondo perduto in conto corrente e in conto capitale, 1.000 miliardi negli ultimi venti anni.
A fronte della pandemia, il governo ha introdotto una ulteriore pioggia di agevolazioni fiscali e bonus: dalle biciclette e monopattini elettrici fino ai recenti bonus casalinghe e agli sgravi contributivi di 6 mesi per chi assume o di 4 mesi per chi richiama lavoratori dalla cassa integrazione. Tanti piccoli secchi d’acqua con la pretesa di vedere spuntare l’erba nel deserto economico e sociale del prossimo autunno. L’effetto economico di tutte queste agevolazioni, sgravi e bonus è modesto, i miliardi impegnati sono soldi in deficit con debito futuro da ripagare che non attivano crescita e occupazione e, quindi, in gran parte buttati al vento.
Ma al di là degli effetti economici, queste agevolazioni fiscali, bonus e fondi perduti erogati a pioggia ledono un principio costituzionale: quello della libertà economica dei cittadini e delle imprese. Non sono un costituzionalista, quindi mi limito a ragionare
TAX EXPENDITURES E TRASFERIMENTI A FONDO PERDUTO COSTANO MILIARDI MA CREANO POCA OCCUPAZIONE
da economista.
In Italia il reddito prodotto da famiglie e imprese viene “incamerato” dal bilancio pubblico con entrate totali di 850 miliardi di euro, pari al 47% del Pil (43% di pressione fiscale e 4% di altre entrate). Se si considerano gli oltre 100 miliardi di evasione, si vede che chi paga onestamente tutte le tasse ha un pressione fiscale che sfiora il 60%. Più semplicemente, un lavoratore che “costa” all’impresa 3.000 euro al mese si ritrova in busta paga un netto di 1.500 euro. Dopodiché lo Stato, dopo avergli dimezzato lo stipendio, pretende con agevolazioni e bonus di dire a quel lavoratore cosa farne dei restanti 1.500 euro e cioè se andare in vacanza o in pizzeria o se comprare un monopattino o un mobile da cucina.
Qualche anno fa è stato introdotto in Costituzione un vincolo sull’azzeramento del deficit pubblico. Da senatore non l’ho votato. Per due motivi: il vincolo sul deficit imposto da Maastricht, come detto da autorevoli europeisti, era “stupido” perché lasciava governi e parlamenti liberi di aumentare sia le tasse che la spesa pubblica, di aumentare cioè il “peso” dello Stato rispetto alle libertà di scelta dei cittadini; il problema non è il deficit di per sé, ma “cosa” si fa con quel deficit. In sostanza, il deficit pubblico va riferito esclusivamente a investimenti.
Il vero patto costituzionale tra Stato e cittadini deve allora riguardare il tetto al totale delle entrate in rapporto al Pil. Questo è lo spartiacdi que tra scelte individuali dei cittadini per acquisto di beni privati e dovere di partecipare alle scelte collettive per la fornitura di servizi e beni pubblici.
Pertanto, di fatto, siamo tutti cittadini e imprese “a mezzadria” con lo Stato, esclusi ovviamente gli evasori. Siamo cioè vicini a un Paese a “socialismo reale” di sovietica memoria. Si ricorderà che in quella esperienza lo Stato “decideva” cosa e quanto i cittadini potevano e dovevano comprare. Lo faceva con la fissazione di prezzi politici decisi dal pianificatore centrale. Ma si ricorderà anche che andavano esaurite in pochi giorni le scarpe numero 40 e rimanevano invendute quelle numero 48. Per di più si diceva che era stata sconfitta l’inflazione (come qualcuno in Italia ha annunciato in pompa magna la sconfitta della povertà). In realtà era solo stata mascherata nelle file di attesa davanti ai negozi vuoti e nei magazzini gonfi di merci invendibili.
È allora evidente che se quelle decine e decine di miliardi di tax expenditures e fondi perduti, fossero utilizzati per varare una seria, forte e strutturale riforma dell’Irpef e della tassazione delle imprese, gli effetti sulla ripresa dei consumi e degli investimenti sarebbero molto più forti e, soprattutto, famiglie e imprese sarebbero “più “più libere” di decidere come spendere il reddito da loro prodotto, rispettando meglio il sacrosanto principio della nostra Costituzione.