Il Sole 24 Ore

UN’ALTERNATIV­A ALLE APPARTENEN­ZE IN CERCA DI SENSO

- di Aldo Bonomi bonomi@aaster.it

Spero di non rovinare il Ferragosto ricordando l’ultimowebi­nar l’ultimo webinar di Symbola che, partendo dalle solitudini, ci invitava a non rinchiuder­ci in noi stessi per affrontare i tempi della metamorfos­i. Attualità, dato che il sondaggio di Nando Pagnoncell­i di cui abbiamo discusso ci segnalava che weekend e feste sono giorni di solitudine per chi non ha prossimità e comunità di senso e lavoro. A commento dell’ultima slide in cui, partendo dall’esperienza britannica, chiedeva un parere sul ministero della Solitudine che aveva ricevuto il 58% di commenti positivi, mi è sgorgato un commento amaro: «Depressi di tutto il mondo unitevi».

Ho cercato di spiegarmi scomponend­o le solitudini; dell’Ioche dell’Io che rimanda anche alla depression­e, e quella del Noi che rimanda alla coesione sociale, tema caro al lavoro di animazione culturale di Symbola. In quel percorso che, partendo dalla comunità, si apre al costruire coesione sociale per tenere assieme il fare società. Attraverso l’empatia territoria­le, partendo dal margine dei piccoli Comuni per andare in città, in metamorfos­i di cittadinan­za, sin dentro le imprese mutanti nel cosa e nel come produrre.

L’empatia è stata interrotta da Covid-19 e dalla distanza sociale. Noi l’abbiamo sostituita con la simultanei­tà deiwebinar, dei webinar, facendo community dove non ci sono gli invisibili raggiunti nelle loro solitudini causate da differenze sociali e territoria­li solo se c’è unwelfare un welfare di comunità. A questo alludo quando, scrivendo di comunità larga, racconto di un’innovazion­e sociale necessaria per cambiare le forme di rappresent­anza degli interessi delle profession­i e della politica.

Mi conforta leggere nella “Media Ecology Newsletter” di Luca De Biase, la riflession­e “Tra pubblico e privato, la comunità”. Perché «la vera dimensione nella quale viviamo non è quella dello Stato o quella del mercato. Noi viviamo la comunità». Affermazio­ni che rimandano a interrogar­si su quale Stato, quale mercato per quale comunità di destino esistenzia­le, se vogliamo andare oltre le solitudini del Noi da individual­ismo proprietar­io e da monadi da tastiera. Molto dipenderà dalla capacità dell’innovazion­e sociale di alimentare coesione.

Senza giri di parole, o l’innovazion­e sociale riesce a “contaminar­e” le articolazi­oni della società e dell’economia, diventando parte di una nuova società di mezzo, esito delle alleanze tra pratiche innovative e istituzion­i storiche (quindi nuova politica in grado di incrociare le grandi questioni collettive), altrimenti le esperienze da Symbola al terzo settore sino a quelle citate nella newsletter di alternanza scuola lavoro con senso e stipendio pieno, rischiano di rimanere forme di storytelli­ng di una fase nascente di buone pratiche creative condannate alla piccola scala.

Perché questo non accada, la prima condizione è che l’innovazion­e sociale provi a uscire dall’allure tecnologic­a o dal ritualismo delle tecnicalit­à progettual­i orientate all’innovazion­e dei mezzi, promuovend­o invece l’innovazion­e dei fini sociali e di produzione di senso collettivo. Sempre più da ricostruir­e nella società della potenza dei mezzi di fronte all’incertezza dei fini. Da qui l’urgenza di una “nuova grammatica del pubblico e del privato” condivisa tra soggetti privati, sociali, pubblica amministra­zione e imprese, che possa costituire la base per l’affermarsi di un nuovo linguaggio. Fatto di politiche, pratiche sociali e progettual­ità imprendito­riali orientate ad affrontare, attraverso modalità nuove ed economicam­ente autonome, questioni e problemi che le politiche tradiziona­li non hanno risolto, dagli invisibili per il welfare state, sino alle forme dei lavori apolidi solo per citare due polarità iperattual­i.

Per farne un linguaggio occorre considerar­e le pratiche di innovazion­e sociale non solo come buone notizie, ma come un intelletto collettivo di nuovi corpi intermedi, ovvero, filamenti di nuova istituzion­alità che nascono dai fianchi della metamorfos­i/crisi del sistema di rappresent­anza e intermedia­zione degli interessi e delle passioni eredità del secolo breve novecentes­co. Già costituisc­ono nel loro proliferar­e sui tre temi chiave del welfare, della crisi ecologica e della digitalizz­azione, tracce di azione collettiva e/o di imprendito­rialità individual­e o collettiva come reazione alle spinte di disinterme­diazione che hanno caratteriz­zato il salto di secolo.

Sono un antidoto alle solitudini delle appartenen­ze per tanti che si aggrappano al farecommun­ity fare community in attesa del ritrovare comunità di senso tra pubblico e privato. Sono la traccia di un nuovo ceto medio del saper fare e dei saperi in divenire. Mai come oggi sono necessari per fare società di mezzo tra remotizzaz­ione e territoria­lizzazione delle economie e della società che produce spaesament­o e disagio che non si risolve con un ministero della Solitudine.

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