Hong Kong, in manette l’editore dissidente Jimmy Lai
Arrestati anche i figli Scambio di sanzioni tra Stati Uniti e Cina
Dopo l’arresto dei dissidenti e il rinvio delle elezioni, il regime colpisce la stampa, infliggendo un’altra profonda ferita alla limitata democrazia di Hong Kong. In contemporanea, Stati Uniti e Cina si scambiano raffiche di sanzioni: la crisi dell’ex colonia britannica è uno dei teatri dello scontro tra le due superpotenze.
Ieri, la polizia di Hong Kong ha arrestato l’editore Jimmy Lai, insieme ai due figli Ian e Timothy e ad alcuni suoi collaboratori. Circa 200 agenti hanno perquisito la redazione del quotidiano Apple Daily. Un raid durato ore: i poliziotti hanno rovistato tra le scrivanie e i file dei giornalisti, in cerca di prove di «attività sovversive e di intelligence con lo straniero», due delle fattispecie di reato punite dalla legge sulla sicurezza nazionale, che Pechino ha imposto alla provincia ribelle il 30 giugno. Sono stati sequestrati 25 scatoloni di materiale. Durante la perquisizione, Lai è stato condotto in redazione, manette ai polsi.
Le azioni di Next Digital, la società che pubblica Apple Daily fondata da Lai, sono crollate del 17% nel mattino, per rimbalzare del 344%, dopo che gli attivisti pro-democrazia hanno lanciato l’appello ad acquistarle. Una specie di boicottaggio al contrario.
Pechino ha da tempo un conto aperto con Lai, lo ritiene uno dei registi delle proteste anti-governative. L’editore, 71 anni, non ha avuto paura di sfidare il regime ed è stato più volte a Washington, dove ha incontrato il vicepresidente Mike Pence e il segretario di Stato, Mike Pompeo. Accusato di cospirazione con potenze straniere, Lai rischia l’ergastolo.
Ferma la condanna di Londra: «La legge sulla sicurezza nazionale viene utilizzata come pretesto per mettere a tacere l’opposizione», ha detto il portavoce del premier Boris Johnson. Sulla stessa linea il portavoce del commissario per gli Affari esteri della Ue: «Gli arresti alimentano i timori che la legge sulla sicurezza nazionale venga utilizzata per soffocare la libertà di espressione». Durissimo Pompeo, che parla di democrazia violata.
Sul fronte sino-americano, Pechino impone sanzioni contro 11 cittadini americani: è la ritorsione all’ordine esecutivo del presidente Donald Trump, che venerdì ha colpito 11 cittadini cinesi, inclusa la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam. Nella lista cinese ci sono senatori come Ted Cruz e Marco Rubio, insieme a rappresentanti di organizzazioni come Freedom House e Human Rights Watch, tutti colpevoli di aver criticato la legge sulla sicurezza nazionale.
L’assalto alla stampa non allineata segna il culmine (per ora) di un crescendo che ha già visto l’arresto di un gruppo di studenti tra i 16 e i 21 anni di età, l’esclusione dalle elezioni legislative di una dozzina di candidati dell’opposizione, il rinvio di un anno del voto («per proteggere la popolazione dal Covid-19»). Sempre ieri, la polizia ha arrestato altre dieci persone, tra cui l’attivista Agnes Chow, tra i fondatori del gruppo pro-democrazia Demosisto, con Joshua Wong. Sono accusati di aver violato la legge sulla sicurezza nazionale, che in poco più di un mese conferma di essere l’incubo temuto da molti, a partire dallo stesso Lai. In un recente intervento sul New York Times, l’editore aveva scritto: «Ogni frase, ogni parola comporterà il rischio di una sanzione. Questa legge rimodellerà Hong Kong in modo che diventi come il resto della Cina». «Dopo quello che è successo ad Apple Daily, gli altri media sanno cosa rischiano se criticano il Governo», afferma Martin Lam, un reporter di Hong Kong.
La censura del regime non si ferma ai media. Diversi libri di attivisti sono stati rimossi dalle biblioteche. La repressione della libertà di stampa, e di espressione, con l’arbitraria interpretazione della legge sulla sicurezza nazionale, mette a rischio anche la credibilità di Hong Kong come hub finanziario globale. L’associazione dei corrispondenti esteri ha affermato che gli arresti e il raid «segnano una nuova fase oscura nell’erosione della reputazione globale della città». Washington ha già revocato lo status speciale che riconosceva a Hong Kong. Nulla di tutto questo frena Pechino.