IL VERO SMART WORKING RICHIEDERÀ TEMPO, RISORSE E PRAGMATISMO
Il limbo in cui è costretto il mercato del lavoro, dopo l’ulteriore stop ai licenziamenti fino a metà ottobre deciso dall’esecutivo, lascia spazio a interrogativi (e ( e timori) su cosa succederà quando le imprese potranno liberamente definire le loro strategie. Così, spuntano una serie di proposte che vanno dal vecchio “lavorare “lavorare meno, lavorare tutti”, alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, fino alla più recente di utilizzare parte delle risorse del Recovery Fund per compensare lo stipendio a fronte di una diminuzione dell’orario di lavoro. Il posto d’onore, però, spetta allo smart working quale soluzione principe per salvaguardare i posti di lavoro. Ma siamo così certi che il futuro del lavoro passi dalla sua diffusione? Serve fare un po’ di chiarezza.
In primo luogo, lavorare smart non prevede orari, né uno spazio fisico definito dove esercitarlo, disponendo di tecnologie e connettività elevate. In realtà, ciò cui abbiamo assistito durante il lockdown è perlopiù telelavoro ( remote working o working from home), ovvero il lavoro a distanza, da casa. Un’altra cosa. Un aggiustamento nelle rappresentazioni è necessario, ora che siamo (o dovremmo essere) entrati in una fase di riprogettazione del futuro: un conto è immaginare un’organizzazione del lavoro in cui una parte degli occupati lavora in modalità smart; altro è ipotizzare il telelavoro. Due opzioni di culture organizzative assai diverse. La prima postfordista e 4.0, la seconda ancora ispirata al fordismo. E con diritti, doveri e tutele altrettanto differenti.
In secondo luogo, bisogna considerare quanto è effettivamente diffusa questa modalità di lavoro. Le ricerche sui lavoratori dipendenti ( Community Research& Analysis per Federmeccanica) svolte durante la chiusura delle attività hanno indicato un suo utilizzo a macchia di leopardo. La recente rilevazione dell’Istat sulle imprese italiane e gli strumenti messi in campo per fronteggiare la pandemia offre una visione realistica, al di là degli slogan, del fenomeno.
Innanzitutto, mediamente un quinto delle imprese (21,3%) aveva introdotto il lavoro a distanza, ma tale strategia è concentrata solo in alcuni settori come i servizi di informazione e comunicazione (69,0%), le forniture di energia elettrica e gas ( 66,6%), le attività professionali e scientifiche (55,4%), quelle assicurative e finanziarie (47,9%) e immobiliari (42,2%), l’istruzione (52,2%). Tutti ambiti dove le tecnologie digitali erano già impiegate ancora prima della propagazione della pandemia e, quindi, è risultata facilitata una riorganizzazione del lavoro.
Com’è facile intuire, molto dipende dalla dimensione delle imprese. Se solo il 16,2% delle microimprese (fino a 9 addetti) ha spostato il lavoro al di fuori delle sue mura, tale soglia aumenta all’89,5% fra le più grandi (oltre 250 addetti). Dunque, il lavoro da remoto ha riguardato una parte significativa, ma minoritaria dell’universo aziendale, considerato che le micro-imprese sono il 78,9% dell’universo, mentre le grandi coprono lo 0,4 per cento.
È poi interessante considerare quanti sono gli occupati coinvolti dal lavoro a distanza. Prima del lockdown solo l’ 1,2%, ovvero circa 154mila sui quasi 13 milioni di lavoratori, lavorava in remoto. Durante la chiusura (marzo-aprile) tale quota è salita all’ 8,8%, concentrati soprattutto nei settori sopra citati. In altre parole, la smaterializzazione del posto di lavoro ha riguardato in particolare una parte del terziario e dei servizi. Ma nel bimestre della riapertura (maggio-giugno), il lavoro torna a materializzarsi e la quota di occupati che lavorano da casa scende al 5,3 per cento. Le imprese hanno riassorbito una parte degli occupati, riducendo il novero dei ladi
voratori a distanza, pur mantenendo comunque una quota superiore a quanto avveniva prima della pandemia. La bolla del lavoro da remoto si è sgonfiata, ma non per tutte le tipologie di aziende: il 33,2% dei lavoratori dell’informazione e comunicazione opera da casa, e così pure il 27,7% di quelli dell’istruzione e il 20% dei professionisti. Inoltre, questi processi riorganizzativi investono le imprese più grandi (25,1%, oltre 250 addetti), mentre sfiorano solo marginalmente le più piccole (4,5%, fino a 9 addetti). Sotto il profilo territoriale il Nord Ovest è l’area d’impresa più disponibile alla riorganizzazione ( 6,6%) seguita dal Centro (5,8%), mentre più riluttanti risultano quelle del Nord Est (4,7%) e del Mezzogiorno ( 4,0%).
Chi pensa al lavoro a distanza (in attesa che si possa materializzare un vero smart working) come “la” soluzione per i futuri problemi occupazionali rischia un abbaglio. Serve un pragmatico realismo. Perché una struttura produttiva prevalentemente composta da micro-imprese vuole soluzioni tailor made e flessibili. Perché è necessario distinguere, anche sotto il profilo giuridico, il telelavoro dalla modalità
smart. Ciò non significa non debba essere perseguita una sua diffusione, anzi. Ma si dev’essere consapevoli che richiede interventi organizzativi, manageriali e soprattutto culturali con risorse e tempi lunghi. Specialmente di politiche che ne incentivino il radicamento, di associazioni imprenditoriali e un sistema formativo che investano nella educazione ai nuovi paradigmi dello sviluppo sostenibile.
Direttore Scientifico Community
Research& Analysis