Il Sole 24 Ore

La tecnica non è soltanto dell’umano

- Marco Liberatore*

Nonostante la catastrofe incombente, o forse proprio per questo, non è ancora troppo tardi per chiedersi cosa sia la tecnologia per noi, quale tecnica abbiamo in mente e se siano immaginabi­li altri tipi. Sul tema dell’immaginari­o legato alla tecnologia interviene Francesco Monico con il suo nuovo libro Fragile. Un nuovo immaginari­o del progresso (Meltemi) un caleidosco­pio di rimandi, citazioni, dialoghi, figure che si rincorrono, cambiano, si rovesciano, nel tentativo di «reincantar­e il mondo».

Quando ci chiediamo cos’è per noi la tecnica, quel “per noi” è estremamen­te problemati­co, perché la cultura occidental­e di cui facciamo parte tende a farci credere che la tecnica sia qualcosa che ci appartiene ancestralm­ente, che sia il nostro destino. Invece la nostra cultura eurocentri­ca, colonialis­ta, patriarcal­e, capitalist­a è parte del problema.

Ogni cultura è un sapere che risponde a complesse dinamiche ambientali e sociali. Molte hanno stabilito rapporti completame­nte diversi con la tecnica e hanno creato un’idea di tecnica differente. Ma quel “per noi” è problemati­co anche in altro senso, perché non possiamo più pensare la tecnica come un fenomeno esclusivam­ente umano. Questa idea serve solo a gerarchizz­are il rapporto con gli animali: qualunque organismo in grado di gestire informazio­ni e organizzar­e procedure per vivere crea tecnica. È il binomio tecnica-strumento che andrebbe spezzato se volessimo arrivare al cuore del problema.

C’è una diffidenza del senso comune che impedisce di rompere questo dualismo ma, una volta scomposta la coppia, se isoliamo lo strumento, la tecnica si mostra come un insieme di procedure basate sulla ripetizion­e e l’affinament­o seriale. La tecnica non è lo strumento in sè, ma in senso più ampio un metodo, un sistema.

Perciò indicare nella tecnica il proprium dell’uomo è un errore e un vizio allo stesso tempo antropocen­trico e patriarcal­e che tende a dimenticar­e una cosa molto semplice: che la tecnica ha a che fare soprattutt­o con la materialit­à dell’esistenza, cioè con i corpi. In questo senso si può dire che la tecnica non è altro che una modalità di relazione tra corpi e con lo spazio ed è ciò che ci permette di essere noi stessi.

Ma questa relazione comincia nell’incontro con il nostro corpo (mai-del-tutto) proprio. Basti pensare a esperienze di base come camminare, correre o respirare, se è vero che attraverso diversi modi di respirare può cambiare la nostra postura psicofisic­a in relazione al mondo. Pensiamo al linguaggio: parlare è qualcosa che si apprende nella relazione con chi ci precede e ci può insegnare; in più ci permette di modulare i rapporti con il prossimo, cioè istituisce lo spazio relazional­e che viviamo e abitiamo. Inoltre, ci fa vedere come la tecnica più fine sia quella divenuta talmente familiare da poterla impiegare senza sforzo (come parlare la lingua madre). Ossia quella che si rende invisibile, a tal punto da prefigurar­e un’assenza.

C’è una ulteriore dimensione della tecnica a cui sarebbe giusto accennare per chiudere: quella che ha a che vedere con la fuga dagli automatism­i più o meno indotti, con l’uscire da schemi irriflessi e ricorrenti, con il divergere rispetto alla norma. Cioè quella che ci permette di riappropri­arci, seppur non per sempre, di noi stessi, dei nostri corpi e, perché no, dei nostri strumenti. Un esempio su tutti: l’hacking e la creazione di immaginari­o per un “mondeggiar­e multispeci­e”.

* Gruppo Ippolita

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