La tecnica non è soltanto dell’umano
Nonostante la catastrofe incombente, o forse proprio per questo, non è ancora troppo tardi per chiedersi cosa sia la tecnologia per noi, quale tecnica abbiamo in mente e se siano immaginabili altri tipi. Sul tema dell’immaginario legato alla tecnologia interviene Francesco Monico con il suo nuovo libro Fragile. Un nuovo immaginario del progresso (Meltemi) un caleidoscopio di rimandi, citazioni, dialoghi, figure che si rincorrono, cambiano, si rovesciano, nel tentativo di «reincantare il mondo».
Quando ci chiediamo cos’è per noi la tecnica, quel “per noi” è estremamente problematico, perché la cultura occidentale di cui facciamo parte tende a farci credere che la tecnica sia qualcosa che ci appartiene ancestralmente, che sia il nostro destino. Invece la nostra cultura eurocentrica, colonialista, patriarcale, capitalista è parte del problema.
Ogni cultura è un sapere che risponde a complesse dinamiche ambientali e sociali. Molte hanno stabilito rapporti completamente diversi con la tecnica e hanno creato un’idea di tecnica differente. Ma quel “per noi” è problematico anche in altro senso, perché non possiamo più pensare la tecnica come un fenomeno esclusivamente umano. Questa idea serve solo a gerarchizzare il rapporto con gli animali: qualunque organismo in grado di gestire informazioni e organizzare procedure per vivere crea tecnica. È il binomio tecnica-strumento che andrebbe spezzato se volessimo arrivare al cuore del problema.
C’è una diffidenza del senso comune che impedisce di rompere questo dualismo ma, una volta scomposta la coppia, se isoliamo lo strumento, la tecnica si mostra come un insieme di procedure basate sulla ripetizione e l’affinamento seriale. La tecnica non è lo strumento in sè, ma in senso più ampio un metodo, un sistema.
Perciò indicare nella tecnica il proprium dell’uomo è un errore e un vizio allo stesso tempo antropocentrico e patriarcale che tende a dimenticare una cosa molto semplice: che la tecnica ha a che fare soprattutto con la materialità dell’esistenza, cioè con i corpi. In questo senso si può dire che la tecnica non è altro che una modalità di relazione tra corpi e con lo spazio ed è ciò che ci permette di essere noi stessi.
Ma questa relazione comincia nell’incontro con il nostro corpo (mai-del-tutto) proprio. Basti pensare a esperienze di base come camminare, correre o respirare, se è vero che attraverso diversi modi di respirare può cambiare la nostra postura psicofisica in relazione al mondo. Pensiamo al linguaggio: parlare è qualcosa che si apprende nella relazione con chi ci precede e ci può insegnare; in più ci permette di modulare i rapporti con il prossimo, cioè istituisce lo spazio relazionale che viviamo e abitiamo. Inoltre, ci fa vedere come la tecnica più fine sia quella divenuta talmente familiare da poterla impiegare senza sforzo (come parlare la lingua madre). Ossia quella che si rende invisibile, a tal punto da prefigurare un’assenza.
C’è una ulteriore dimensione della tecnica a cui sarebbe giusto accennare per chiudere: quella che ha a che vedere con la fuga dagli automatismi più o meno indotti, con l’uscire da schemi irriflessi e ricorrenti, con il divergere rispetto alla norma. Cioè quella che ci permette di riappropriarci, seppur non per sempre, di noi stessi, dei nostri corpi e, perché no, dei nostri strumenti. Un esempio su tutti: l’hacking e la creazione di immaginario per un “mondeggiare multispecie”.
* Gruppo Ippolita