PIÙ FLESSIBILITÀ PER AFFRONTARE IL DOPO PANDEMIA
Le recenti vicende delle norme sul contratto di lavoro a tempo determinato – oscillanti fra restrizioni e parziali liberalizzazioni – mostrano in modo evidente i limiti di interventi legislativi apparsi più attenti alle affermazioni di principio che alle reali necessità del mondo produttivo. Pur essendo giusto evitare che quella a termine rappresenti la modalità normale o unica del contratto di lavoro ( come peraltro previsto dal diritto dell’Unione europea, che impone agli Stati membri almeno una fra le seguenti limitazioni: ragioni oggettive per il rinnovo, numero massimo di rinnovi o durata massima complessiva), occorre giudicare l’istituto conservando lucidità e approccio “laico”, in modo da valutarne, specie nella congiuntura attuale, anche gli aspetti positivi.
Lungi dal costituire un male in sé, i contratti a termine sono tradizionalmente una porta d’ingresso nel mondo del lavoro, che non impegna l’impresa a un investimento di lungo periodo, ma consente allo stesso tempo al prestatore di lavoro di acquisire esperienza e dimostrare le proprie capacità, ponendo le basi, ove ne sussistano i presupposti, per un inquadramento più stabile.
Non a caso la storia italiana del contratto a termine era finora sempre andata nella direzione di una progressiva liberalizzazione: dalle causali tipiche del 1962 alla causale unica generale e astratta introdotta nel 2001 ( « esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo»), fino alla completa eliminazione delle causali nel 2014, pur mantenendo un vincolo di durata massima complessiva.
Il cosiddetto “decreto dignità” ha segnato invece una radicale inversione di tendenza, reintroducendo per rapporti a termine di durata superiore a 12 mesi causali più complesse di quelle degli anni ’ 60, di fatto disincentivandoli, nell’illusione di indirizzare i datori di lavoro sui contratti a tempo indeterminato.
Fin da subito, tuttavia, le nuove regole introdotte dal decreto sono state considerate da più parti complicazioni vessatorie, capaci di generare più contenziosi che vere stabilizzazioni.
E oggi la conferma arriva implicitamente da parte dello stesso legislatore: per far fronte all’aggravamento delle difficoltà economiche delle imprese causato dalla pandemia e per tentare di fermare l’emorragia di posti di lavoro persi a causa dei mancati rinnovi, si ritorna ad allentare, sia pur timidamente, le regole del lavoro a tempo determinato.
Il “decreto agosto” convertito in legge qualche settimana fa ha stabilito che fino al 31 dicembre, ferma la durata massima di 24 mesi, è possibile rinnovare o prorogare i contratti a termine anche senza causale per una sola volta per un massimo di 12 mesi ( e ciò, come successivamente chiarito dall’Ispettorato nazionale del lavoro, anche in deroga al numero massimo di proroghe e al rispetto dei periodi di cosiddetto stop and go tra un contratto e l’altro).
Si tratta senza dubbio di una misura che non scardina l’impianto del “decreto dignità”, ma che è nondimeno importante, perché conferma un principio ineludibile: per spingere in favore dell’occupazione occorre tornare alla flessibilità.
Nei prossimi mesi, con la scadenza del divieto di licenziamento per ragioni economiche in atto ormai da molto tempo, sarà possibile iniziare a valutare l’impatto occupazionale della pandemia, che purtroppo non sembra possa essere indolore. Ma è opportuno fin d’ora creare le condizioni perché le imprese tornino ad assumere o quantomeno non riducano in modo drastico il proprio organico. La possibilità di gestire rapporti di lavoro a termine con meno vincoli può sicuramente ( soprattutto in periodi di grande incertezza) concorrere a tale obiettivo, purché accompagnata da misure che rendano appetibile per le imprese la successiva conferma a tempo indeterminato.
Non pare quindi scandaloso ipotizzare, sul fronte dei contratti a termine, un ritorno a un regime di a- causalità, lasciando ai limiti di durata complessiva del contratto e al vincolo di percentuale massima dei lavoratori a termine il compito di contenerne ragionevolmente l’uso. Senza dimenticare tuttavia che le ragioni principali della riluttanza all’assunzione a tempo determinato restano quelle di sempre: l’elevato costo fiscale e contributivo del lavoro e la perdurante ampia incertezza dei costi aziendali in caso di licenziamento.