Spa chiuse, da rivedere il limite di 5 anni dei patti parasociali
Il vincolo temporale crea complessità e demotiva le azioni di investitori esteri
L'articolo 2341- bis, comma 1, del Codice civile - introdotto nel nostro ordinamento nel contesto della riforma del diritto societario del 2003 - stabilisce per alcune tipologie di patti parasociali relativi alle Spa “chiuse” (cioè le cui azioni non siano quotate su mercati regolamentati) o alle società che le controllano un vincolo di durata massima quinquennale.
La ratio di questa diposizione è sempre apparsa (e appare tutt’oggi) di assai difficile comprensione. Dai lavori preparatori della riforma sembra infatti emergere il desiderio del legislatore di soddisfare con questa norma una ipotizzata esigenza di assimilazione della disciplina applicabile alle società chiuse a quella riguardante le società quotate (per le quali la durata massima di patti parasociali aventi un determinato contenuto è fissata in un triennio), mirando in questo modo, da un lato, a impedire il cristallizzarsi per un periodo di tempo eccessivamente lungo di posizioni dominanti attuate mediante accordi di natura parasociale e, dall'altro lato, a favorire conseguentemente la contendibilità degli assetti di controllo.
Ora, se è vero che la contendibilità è un valore che ha certamente senso tutelare con riferimento a società quotate (pur senza dimenticare, peraltro, una delle peculiarità del nostro mercato dei capitali, caratterizzato da un numero limitato di società quotate con una struttura azionaria in cui non sia presente un azionista di maggioranza o comunque di peso molto rilevante), altrettanto non sembra potersi dire con riferimento a società chiuse, in merito alle quali ogni limitazione dell'autonomia privata dei soci deve essere giustificata da solide motivazioni e da fondati interessi collettivi.
Nel caso di specie, si fatica molto a identificare sia le une sia gli altri, a maggior ragione se si considera la disciplina rispettivamente applicabile alle Srl (per le quali non è previsto alcun limite espresso di durata dei patti parasociali) e alle società a partecipazione mista pubblico-privata o in house ( per le quali è espressamente prevista dagli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 175/2016 la possibilità di patti parasociali con durata superiore a cinque anni, in deroga all'articolo 2341bis, comma 1, del Codice civile). In altre parole, appare difficile immaginare che determinati interessi collettivi meritino o meno protezione in funzione della tipologia di società chiusa prescelta dai soci e/o non siano degni di alcuna tutela qualora l'impresa interessata veda coinvolta la pubblica amministrazione.
Sono invece, per converso, facilmente individuabili diversi argomenti che portano a dubitare della valenza positiva della disciplina disposta dal citato articolo 2341- 2341-bis bis e che dovrebbero pertanto indurre il legislatore a riflettere attentamente circa i benefici che potrebbero derivare dalla sua eliminazione.
Al riguardo, e solo per fare un esempio, è sufficiente sottolineare come non sembri avere alcun senso logico imporre una disciplina inderogabile circa una durata massima (o comunque una durata non adeguata) degli accordi parasociali posti al servizio di operazioni di investimento (si pensi al mondo del private equity e, a maggior ragione, a quello del venture capital) che si fondano su legittime e assolutamente apprezzabili prospettive temporali molto spesso eccedenti il quinquennio.
Senza volersi addentrare in questa sede in articolate digressioni tecnico-giuridiche, tecnico- giuridiche, è bene sottolineare come la principale conseguenza dal citato vincolo quinquennale sia stata e continui a essere il trasferimento a statuto delle Spa di una serie di pattuizioni che usualmente (e tipicamente, fuori dall'Italia) vengono trattate a livello di accordi tra soci, riservati e dunque, diversamente dagli statuti sociali, non accessibili a chiunque mediante una semplice consultazione del Registro delle imprese.
Anche a voler prescindere dai non necessariamente banali problemi di lingua ( lo statuto deve essere in italiano, mentre gli accordi con investitori stranieri sono usualmente redatti in inglese, con la conseguente necessità di predisporre traduzioni che per definizione possono creare conflitti interpretativi), giova ricordare come il predetto trasferimento a statuto di norme tipicamente parasociali sia stato e venga realizzato solo grazie ad arditi sforzi di applicazione estensiva di una serie di norme di legge e abbia dunque finito con il trasformare lo statuto in una sorta di mega- contenitore, in cui vengono “forzatamente” collocate sia pattuizioni tipiche di questa sede, sia accordi volti invece a soddisfare interessi individuali di singoli soci e che hanno dunque natura propriamente “parasociale”.
Altra conseguenza, non di poco conto, si riscontra nelle operazioni di investimento a cui, come accennato, partecipino investitori stranieri che abbiano quale ultimo target attività economiche localizzate in Italia. In tali casi le parti – poste di fronte alle alternative di sottoscrivere un accordo parasociale “a “a rischio scadenza”, di utilizzare una Srl in luogo di una Spa ovvero di riversare in un documento pubblico complicate intese che con lo statuto poco o nulla hanno a che vedere – optano di frequente per il mantenimento al di fuori del nostro Paese del veicolo societario (la cosiddetta “HoldCo”, direttamente partecipata dagli investitori) che sta al vertice della struttura dell'operazione, nel tentativo di sfuggire in tal modo al regime legislativo italiano in tema di durata dei patti parasociali riguardanti le Spa (“tentativo” in quanto ancora una volta la tematica risulta tecnicamente assai complessa, in termini di determinazione della legge regolatrice e delle relative norme di necessaria applicazione).
Nei fatti, sembra dunque di poter dire che il citato vincolo quinquennale alla durata di determinati patti parasociali riguardanti le Spa abbia ottenuto un risultato opposto rispetto a uno degli obiettivi che si era prefissa la riforma del 2003, ovvero l'attrazione di investitori esteri al nostro contesto normativo, reso in quell'occasione deliberatamente più flessibile e più simile a quello di altri ordinamenti giuridici.
Considerata la sede, non è evidentemente possibile dilungarsi oltre sul tema, se non per formulare l'auspicio che questa breve nota possa indurre il legislatore a mettere in tempi brevi in agenda una (ragionevolmente non divisiva, in termini ideologici) riformulazione dell'attuale testo dell'articolo 2341bis, comma 1, del Codice civile che lasci alla giurisprudenza – come già avviene oggi per le Srl – il compito di stabilire in concreto quando la durata eccessiva di un vincolo parasociale debba essere considerata illegittima, in quanto surrettiziamente finalizzata a occultare l'intento di prevedere obbligazioni di durata sostanzialmente perpetua, inammissibili come tali in base ai principi del nostro ordinamento giuridico.
Una cosa è certa: l'auspicato intervento legislativo non muterà i destini di questo Paese, ma potrebbe validamente contribuire a semplificarne il quadro normativo di riferimento per chi vi debba investire.
Tra le controindicazioni della norma il fatto che possa rappresentare un ostacolo a operazioni finanziarie di lungo periodo