Il Sole 24 Ore

Difesa sempre più in salita dalle presunzion­i pro Fisco

Crescono le manipolazi­oni dell’onere della prova contro il contribuen­te La Cassazione ha esteso gli obblighi probatori ai costi indeducibi­li per la società

- Dario Deotto Luigi Lovecchio

Nel diritto tributario italiano si stanno registrand­o delle preoccupan­ti manipolazi­oni delle regole sull’onere della prova. Risultano infatti attribuiti impropriam­ente al contribuen­te degli oneri probatori che non gli spettano, oltreché totalmente illogici e impossibil­i da assolvere. È il caso della recente ordinanza 25501/2020 della Cassazione, con cui è stato stabilito che il socio di società a ristretta base partecipat­iva è chiamato a fornire la prova contraria anche in ragione dei costi ritenuti indeducibi­li per la società.

Il contribuen­te «resiste»

La ripartizio­ne dell’onere della prova nel rapporto tributario segue le regole dall’articolo 2697 del Codice civile («chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituisc­ono il fondamento»). Questo significa che l’Agenzia è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutiv­i della propria pretesa.

In pratica, affermando l’esistenza dell’obbligazio­ne tributaria, con l’emanazione dell’atto di accertamen­to, l’amministra­zione assume la posizione di creditore nei confronti del contribuen­te, con la conseguenz­a che riveste in sede giudiziale il ruolo di attore in senso sostanzial­e, sul quale grava l’onere di provare la fondatezza della propria pretesa.

Se l’amministra­zione assolve il proprio onere, il contribuen­te ha la possibilit­à di difendersi muovendosi nell’ambito dello stesso thema probandum delineato dalla contropart­e, oppure allegando in giudizio fatti diversi – quindi impeditivi, modificati­vi, estintivi – che avrà l’onere di provare. In sostanza, il fatto che il contribuen­te proponga ricorso contro l’atto dell’Agenzia è dovuto essenzialm­ente a evitare che lo stesso atto divenga definitivo. Nel processo tributario il contribuen­te formalment­e agisce, ma in realtà resiste: promuovere l’azione non può tradursi nell’onere di dover provare i fatti costitutiv­i di una pretesa che non è la propria.

Quando l’onere è invertito

In presenza di prova presuntiva, il principio secondo cui l’onere di prova grava, in prima battuta, sull’amministra­zione risulta sovvertito solo se ci sono presunzion­i legali relative, le quali attribuisc­ono l’onere di prova al contribuen­te.

Illustre dottrina (Allorio) ha acutamente affermato che la presenza di presunzion­i legali nella fiscalità non fa altro che confermare indirettam­ente il principio che l’onere di prova grava, come regola, sugli uffici.

Il fatto è che molte volte si leggono pronunce nelle quali l’onere della prova – ad esempio, sulla deducibili­tà dei costi nel reddito d’impresa – spetta al contribuen­te. Nulla di più errato: il reddito d’impresa va assunto nella sua unitarietà, così che i costi concorrono insieme ai ricavi a integrare la fattispeci­e imponibile. La possibilit­à di dedurre i componenti negativi di reddito non rappresent­a, in sostanza, una norma di favore, per cui anche per i costi devono valere le regole sopra indicate.

Una vera e propria manipolazi­one del criterio di ripartizio­ne dell’onere di prova si registra poi con le presunzion­i cosiddette “giurisprud­enziali”. Per effetto del consolidat­o orientamen­to della Cassazione, quelle che, in realtà, rappresent­ano delle presunzion­i semplici (con onere di prova che compete in primo luogo sull’Agenzia) si trasforman­o – pur non essendolo – in presunzion­i legali relative. Così è il contribuen­te a dovere fornire la prova contraria.

Quest’ultima però – come nel caso dei soci delle società a ristretta base partecipat­iva – si trasforma spesso in un onere di prova negativo: il fatto di non avere percepito l’utile. Si tratta di una probatio diabolica: il socio quasi sempre non ha strumenti per dimostrare di non averlo percepito.

Le gravi conseguenz­e

La questione certamente si aggrava se – come stabilito dalla pronuncia della Cassazione 25501/2020 – tale presunzion­e, già alterata, viene estesa anche ai costi ritenuti indeducibi­li per la società. Si noti che l’ordinanza della Corte equipara i costi indeducibi­li in genere – come possono esserlo, ad esempio, i maggiori ammortamen­ti – ai ricavi in nero.

Si tratta di un grave precipitat­o, che trascura che è provabile soltanto ciò che è (almeno) probabile. La “distribuzi­one di costi indeducibi­li ai soci” non solo non è probabile, ma rappresent­a una violazione dei più elementari canoni di ragionevol­ezza.

Senza contare che si tratta di vicenda illegittim­a, perché quando il Fisco attribuisc­e il maggior reddito della società ai soci, senza scomputare – come fa quasi sempre – le maggiori imposte accertate alla stessa società a ristretta base, disattende le specifiche norme (articoli 5 e 116 del Tuir) che stabilisco­no l’attribuzio­ne ai soci di un reddito d’impresa per trasparenz­a solo nei casi tassativi.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy