CON LA DOPPIA MAGGIORANZA ACCELERA LA RIFORMA FISCALE
Il risultato delle elezioni in Georgia, che ha consegnato di fatto ai democratici anche il controllo del Senato seppur con un margine minimo (in caso di voto 50-50 al Senato il vice-presidente Harris ha il tie-break vote), cambia radicalmente la possibilità per il neo-presidente Biden di attuare le riforme sulle quali ha basato la sua campagna elettorale, ed in particolare la riforma fiscale (una delle poche misure che potrebbe essere approvata dal Congresso con un voto a maggioranza semplice).
In campagna elettorale Biden ha infatti promesso di aumentare le tasse sulle corporation e i contribuenti più benestanti, con la modifica di parti significative della riforma fiscale Trump del 2017 (“Tax Cuts and Jobs Act”) e alcune proposte che l’amministrazione Obama non era riuscita a far approvare al Congresso.
Per quanto riguarda le società, che hanno beneficiato di una forte riduzione del livello impositivo con la precedente riforma fiscale, Biden vorrebbe aumentare il corporate tax rate dal 21% al 28% (era al 35% ante riforma Trump), introdurre una minimum tax del 15% sulle società con livelli di tassazione effettiva inferiore ad una certa soglia e aumentare le imposte sui redditi di fonte estera. All’aumento della tassazione farebbe però da contraltare un rinnovato piano di incentivi per il re-shoring di attività produttive precedentemente spostate all’estero o comunque per nuovi investimenti negli Usa.
Con riferimento invece alle persone fisiche, le principali modifiche riguarderebbero l’aumento dell’aliquota marginale dell’imposta sul reddito e di quella sui capital gain, accompagnate da significative modifiche al meccanismo dell’imposta di successione.
Il margine minimo a disposizione dei democratici sia al Senato che alla Camera (dove il differenziale tra rappresentanti democratici e repubblicani si è notevolmente ridotto per effetto del voto di novembre) avrà un notevole impatto sul contenuto della riforma, che dovrà necessariamente mediare tra le istanze più radicali dell’ala progressista del partito, focalizzate sugli aspetti di income inequality, e quelle dell’ala moderata, più attenta all’impatto che l’aumento delle tasse potrebbe avere sulla ripresa economica, soprattutto in una fase in cui il paese non è ancora uscito dall’emergenza Covid.
La riforma fiscale sembra in ogni caso una delle prime misure che la nuova amministrazione metterà in cantiere, tanto che non si esclude la possibilità che possa vedere la luce entro la fine dell’anno ed avere effetti retroattivi all’1/1/21, come accaduto peraltro con la precedente riforma fiscale.
Quali sono le misure attese che, se implementate, potrebbero avere gli impatti più significativi sulle aziende italiane con investimenti negli Usa?
Alcune delle modifiche attese avranno effetti limitati sui gruppi italiani, ad esempio l’aumento delle imposte sui redditi di fonte estera ma anche l’introduzione di una minimum tax sulle società che abbiano bilanci in utile ma livelli di tassazione effettiva nulla o estremamente contenuta, situazioni tipicamente esistenti nei gruppi Usa con operazioni, e spesso intangibles, all’estero.
La modifica del tax rate avrebbe invece un impatto rilevante anche per i gruppi italiani con investimenti negli Usa. Il significativo incremento atteso porterebbe infatti l’aliquota nominale Usa (attualmente pari a circa il 25% considerando sia l’imposta sul reddito a livello federale che quella statale media) nuovamente al di sopra di quella italiana (come noto pari a circa il 28% considerando sia l’Ires che l’aliquota media Irap), modificando una variabile importante nelle decisioni di investimento e obbligando i gruppi italiani a rivedere quelle già prese in merito alle relative strutture finanziarie (debito vs. equity delle subsidiary Usa).
Per quanto riguarda la valutazione di nuovi investimenti produttivi negli Usa, occorrerà tenere altresì in considerazione il nuovo credito d’imposta finalizzato ad incentivare sia il re-shoring di attività produttive precedentemente spostate all’estero che nuovi investimenti, anche nella forma di espansione o rinnovamento di attività produttive esistenti, misura che interesserebbe sia i gruppi americani che quelli esteri.
Occorrerà infine monitorare la posizione della nuova amministrazione sull’incremento dei dazi all’importazione, possibile reazione alle digital service tax europee (quella italiana è entrata in vigore nel 2020) che colpiscono di fatto principalmente le big tech Usa, nonché l’atteso rinnovato coinvolgimento degli Stati Uniti nei lavori Ocse di riforma della tassazione delle attività digitali e dei gruppi multinazionali (c.d. Pillar I e Pillar II).
Probabile credito d’imposta per il re-shoring delle attività produttive