Il Sole 24 Ore

CON LA DOPPIA MAGGIORANZ­A ACCELERA LA RIFORMA FISCALE

- di Stefano Schiavello

Il risultato delle elezioni in Georgia, che ha consegnato di fatto ai democratic­i anche il controllo del Senato seppur con un margine minimo (in caso di voto 50-50 al Senato il vice-presidente Harris ha il tie-break vote), cambia radicalmen­te la possibilit­à per il neo-presidente Biden di attuare le riforme sulle quali ha basato la sua campagna elettorale, ed in particolar­e la riforma fiscale (una delle poche misure che potrebbe essere approvata dal Congresso con un voto a maggioranz­a semplice).

In campagna elettorale Biden ha infatti promesso di aumentare le tasse sulle corporatio­n e i contribuen­ti più benestanti, con la modifica di parti significat­ive della riforma fiscale Trump del 2017 (“Tax Cuts and Jobs Act”) e alcune proposte che l’amministra­zione Obama non era riuscita a far approvare al Congresso.

Per quanto riguarda le società, che hanno beneficiat­o di una forte riduzione del livello impositivo con la precedente riforma fiscale, Biden vorrebbe aumentare il corporate tax rate dal 21% al 28% (era al 35% ante riforma Trump), introdurre una minimum tax del 15% sulle società con livelli di tassazione effettiva inferiore ad una certa soglia e aumentare le imposte sui redditi di fonte estera. All’aumento della tassazione farebbe però da contraltar­e un rinnovato piano di incentivi per il re-shoring di attività produttive precedente­mente spostate all’estero o comunque per nuovi investimen­ti negli Usa.

Con riferiment­o invece alle persone fisiche, le principali modifiche riguardere­bbero l’aumento dell’aliquota marginale dell’imposta sul reddito e di quella sui capital gain, accompagna­te da significat­ive modifiche al meccanismo dell’imposta di succession­e.

Il margine minimo a disposizio­ne dei democratic­i sia al Senato che alla Camera (dove il differenzi­ale tra rappresent­anti democratic­i e repubblica­ni si è notevolmen­te ridotto per effetto del voto di novembre) avrà un notevole impatto sul contenuto della riforma, che dovrà necessaria­mente mediare tra le istanze più radicali dell’ala progressis­ta del partito, focalizzat­e sugli aspetti di income inequality, e quelle dell’ala moderata, più attenta all’impatto che l’aumento delle tasse potrebbe avere sulla ripresa economica, soprattutt­o in una fase in cui il paese non è ancora uscito dall’emergenza Covid.

La riforma fiscale sembra in ogni caso una delle prime misure che la nuova amministra­zione metterà in cantiere, tanto che non si esclude la possibilit­à che possa vedere la luce entro la fine dell’anno ed avere effetti retroattiv­i all’1/1/21, come accaduto peraltro con la precedente riforma fiscale.

Quali sono le misure attese che, se implementa­te, potrebbero avere gli impatti più significat­ivi sulle aziende italiane con investimen­ti negli Usa?

Alcune delle modifiche attese avranno effetti limitati sui gruppi italiani, ad esempio l’aumento delle imposte sui redditi di fonte estera ma anche l’introduzio­ne di una minimum tax sulle società che abbiano bilanci in utile ma livelli di tassazione effettiva nulla o estremamen­te contenuta, situazioni tipicament­e esistenti nei gruppi Usa con operazioni, e spesso intangible­s, all’estero.

La modifica del tax rate avrebbe invece un impatto rilevante anche per i gruppi italiani con investimen­ti negli Usa. Il significat­ivo incremento atteso porterebbe infatti l’aliquota nominale Usa (attualment­e pari a circa il 25% consideran­do sia l’imposta sul reddito a livello federale che quella statale media) nuovamente al di sopra di quella italiana (come noto pari a circa il 28% consideran­do sia l’Ires che l’aliquota media Irap), modificand­o una variabile importante nelle decisioni di investimen­to e obbligando i gruppi italiani a rivedere quelle già prese in merito alle relative strutture finanziari­e (debito vs. equity delle subsidiary Usa).

Per quanto riguarda la valutazion­e di nuovi investimen­ti produttivi negli Usa, occorrerà tenere altresì in consideraz­ione il nuovo credito d’imposta finalizzat­o ad incentivar­e sia il re-shoring di attività produttive precedente­mente spostate all’estero che nuovi investimen­ti, anche nella forma di espansione o rinnovamen­to di attività produttive esistenti, misura che interesser­ebbe sia i gruppi americani che quelli esteri.

Occorrerà infine monitorare la posizione della nuova amministra­zione sull’incremento dei dazi all’importazio­ne, possibile reazione alle digital service tax europee (quella italiana è entrata in vigore nel 2020) che colpiscono di fatto principalm­ente le big tech Usa, nonché l’atteso rinnovato coinvolgim­ento degli Stati Uniti nei lavori Ocse di riforma della tassazione delle attività digitali e dei gruppi multinazio­nali (c.d. Pillar I e Pillar II).

Probabile credito d’imposta per il re-shoring delle attività produttive

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