Il Sole 24 Ore

Dividendi esteri discrimina­ti: nodo tassazione netto o lordo

Aidc Milano si è rivolta alla commission­e Ue per la compatibil­ità delle norme Non si può condiziona­re la scelta del contribuen­te riguardo all’intermedia­rio

- Marco Piazza Alessandro Savorana

La tassazione discrimina­toria delle persone fisiche che incassino dividendi di fonte estera senza l’intervento di un sostituto d’imposta italiano è stata segnalata alle autorità europea da parte della Commission­e per la compatibil­ità delle norme italiane con il diritto Ue dell’Aidc di Milano.

Si tratta dell’annoso problema della tassazione “netto” o “lordo” frontiera. In pratica, i dividendi di fonte estera percepiti da persone fisiche residenti in Italia al di fuori dell’esercizio d’impresa, sono assoggetta­ti in Italia a una ritenuta a titolo d’imposta ove siano percepiti con l’intervento di un intermedia­rio finanziari­o italiano ovvero a una imposta sostitutiv­a, da liquidare a cura del contribuen­te in sede di dichiarazi­one dei redditi, ove siano percepiti direttamen­te all’estero o in generale senza il tramite di un intermedia­rio nazionale. In entrambi i casi si applica l’aliquota d’imposta del 26 per cento.

Tuttavia, nel primo caso la base imponibile è il cosiddetto “netto frontiera” ossia l’importo del dividendo al netto delle ritenute subite all’estero, all’atto della percezione del dividendo (articolo 27, comma 4, Dpr 600/73); mentre nel secondo caso la base imponibile è costituita dal dividendo al “lordo della ritenuta” (articolo 18 del Testo unico come interpreta­to nella prassi (si vedano le istruzioni al quadro RM della dichiarazi­one e la risposta n. 111 del 21 aprile 2020).

L’onere imposto alle persone fisiche private residenti in Italia di canalizzar­e l’incasso di dividendi di fonte estera, per non subire una tassazione discrimina­toria, costituisc­e una restrizion­e dei movimenti di capitale dato che tali movimenti comprendon­o, in base alla direttiva 88/361/Cee, anche le “operazioni effettuate da residenti presso istituti finanziari stranieri” (allegato I, punto VI.B) - in quanto il soggetto viene, di fatto, obbligato a canalizzar­e questo genere di flusso finanziari­o transnazio­nale presso istituti italiani.

Il sistema è, secondo la Commission­e compatibil­ità Ue dell’Aidc di Milano, in contrasto con l’articolo 63 del Trattato sul funzioname­nto della Ue che espressame­nte vieta le restrizion­i ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi, ivi incluse le restrizion­i sui pagamenti. Peraltro, come sottolinea­to nella denuncia, questo deteriore trattament­o non può essere giustifica­to da quanto previsto dal successivo articolo 64 Tufe, che lascia impregiudi­cata l’applicazio­ne ai paesi terzi di qualunque restrizion­e in vigore alla data del 31 dicembre 1993 in virtù delle legislazio­ni nazionali o della legislazio­ne dell’Unione per quanto concerne i movimenti di capitali provenient­i da paesi terzi o ad essi diretti, che implichino investimen­ti diretti.

Infatti, le disposizio­ni domestiche restrittiv­e sono state introdotte successiva­mente (dal 1° gennaio 2004) e, quindi, la violazione del diritto unionale è rilevante anche nei rapporti con gli Stati terzi.

La discrimina­zione costituisc­e anche una violazione dell’articolo 56 del Tfue sulla libertà di circolazio­ne dei servizi (nel caso, servizi finanziari).

Come rilevato dalla sentenza della Corte di giustizia 22 novembre 2018 nel procedimen­to C-625/17 (paragrafi 28–30) l’articolo 56 Tfue osta all’applicazio­ne di qualsiasi normativa nazionale che abbia l’effetto di rendere la prestazion­e di servizi tra Stati membri più difficile rispetto alla prestazion­e di servizi puramente interna. Infatti, conformeme­nte alla giurisprud­enza della Corte, l’articolo 56 Tfue esige l’eliminazio­ne di ogni restrizion­e alla libera prestazion­e dei servizi imposta per il fatto che il prestatore sia stabilito in uno Stato membro diverso da quello in cui sia fornita la prestazion­e (sentenza del 25 luglio 2018, Ttl, C-553/16, punto 45 e giurisprud­enza ivi citata). Rappresent­ano restrizion­i alla libera prestazion­e dei servizi le misure nazionali che vietano, ostacolano o rendono meno attrattivo l’esercizio di tale libertà (sentenza del 25 luglio 2018, Ttl, C-553/16, punto 46 e giurisprud­enza ivi citata). Il diritto alla libera prestazion­e dei servizi conferito dall’articolo 56 Tfue ai cittadini degli Stati membri include la libera prestazion­e dei servizi «passiva», ossia la libertà per i destinatar­i di servizi di recarsi in un altro Stato membro per fruire ivi di un servizio, senza soffrire restrizion­i (sentenza 9 marzo 2017, Piringer, C342/15, punto 35).

In sostanza non si può condiziona­re la scelta del contribuen­te riguardo all’intermedia­rio a cui affidare l’amministra­zione del proprio patrimonio mobiliare attraverso una differenzi­azione dell’imposizion­e.

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