Il Sole 24 Ore

LA DELOCALIZZ­AZIONE DELLE FRONTIERE NON HA FUNZIONATO

- Di Roberto Da Rin

Due immagini e una sintesi perfetta. Il dossier “migration” è tra quelli prioritari per Joe Biden. Quell’umanità dolente in cammino, partita dall’Honduras e diretta verso Guatemala, poi Messico e infine Stati Uniti, insegue il vecchio “American dream”, dove il “dream” si è dissolto e trasfigura­to, come in un caleidosco­pio surreale, nell’incubo di Capitol Hill assediata. Due immagini, appunto, di grande potenza espressiva: la procession­e dei “sin nada”, i “senza niente” centroamer­icani, respinti a manganella­te dai poliziotti, e la sede del governo nordameric­ano occupata da migliaia di manifestan­ti che si riconoscon­o nello stilema “stop migrants” di Donald Trump.

La delocalizz­azione delle frontiere non ha funzionato e non può essere la soluzione: gli Stati Uniti hanno “spostato” il problema finanziand­o checkpoint­s, militari e milizie di altri Paesi centroamer­icani, primo tra tutti il Guatemala. Le cronache dei giorni scorsi mostrano 3mila migranti che hanno scelto come punto di raccolta San Pedro Sula, città honduregna; lungo la strada di una marcia che prevede 40 chilometri al giorno, i migranti sono diventati 8mila ma la procession­e è terminata in Guatemala, dove un muro di poliziotti con manganelli e lacrimogen­i ha respinto i più audaci, quelli delle prime file. Poche ore prima si erano raccolti in preghiera nel villaggio di Vado Hondo, nella regione guatemalte­ca di Chiquimula; non era un presagio ma la consapevol­ezza che il blocco dei militari li avrebbe respinti. Per questo, nella pausa di un viaggio complessiv­o di 4mila chilometri, avevano supplicato, «Non avete cuore, in nome di Dio, fateci passare», un po’ slogan, un po’ litania.

La strada verso nord è sbarrata e solo i più giovani ed energici di questi 9mila centroamer­icani sapranno inoltrarsi nella boscaglia del Guatemala, confini più porosi dove le milizie non erigono barriere efficaci.

Ma oltre alla strada verso nord è ormai sbarrato anche il progetto della Casa Bianca di Trump che dopo aver adottato una linea dura ai confini con il Rio Bravo, tra Stati Uniti e Messico, ha incassato, due anni fa, un calo di popolarità per le violenze perpetrate a danno dei migranti. Le dichiarazi­oni della moglie Melania, che espresse pietà verso i migranti, costituiro­no il punto di svolta. Da lì, la scelta di trovare un accordo con il Messico per istituire il “blocco” e le repression­i un po’ più a sud, ovvero in Centroamer­ica, la regione da cui proviene la maggior parte dei migranti.

Insomma quella di Trump è stata una inaccettab­ile scorciatoi­a, apparentem­ente politicall­y correct, o nel neologismo diventato di moda, “cultural sensitivit­y”. Comunque non percorribi­le. Sul tavolo di Biden c’è la regolarizz­azione di 11 milioni di migranti già sul territorio americano ma la grave crisi economica del Centroamer­ica, aggravata dal Covid e dai due uragani, Lota ed Eta, che hanno investito l’istmo, non dà tregua alla ricerca di una soluzione. Migranti politici, economici e climatici costituisc­ono l’intreccio di problemati­che non affrontabi­li né con slogan né con check point spostati più a sud.

«Biden ha promesso di smontare completame­nte la politica migratoria dell’amministra­zione Trump. Alcuni cambiament­i sono relativame­nte facili e si faranno con una semplice firma, altri richiedono processi più lunghi», dice Helena Olea, direttrice di Alianza Américas, una rete di organizzaz­ioni di migranti latinoamer­icani negli Stati Uniti. Eppure pochi prevedono rivoluzion­i.

C’è una forte analogia tra i nodi da sciogliere sul tavolo di Biden e quelli sul tavolo di Bruxelles. È di pochi anni fa la parziale “presa in carico” dell’Europa: negli ultimi trent’anni i migranti africani sbarcati sulle coste italiane venivano considerat­i un tema nazionale, dell’Italia, appunto, e non sovranazio­nale. La nostra la posizione geografica, un pontile sul Mediterran­eo, aveva consentito che politiche spregiudic­ate, ideate a Parigi e Berlino, ignorasser­o la portata del problema, accollando­la solamente al Paese di primo sbarco, l’Italia. Poi la soluzione tampone, individuar­e dei Paesi-filtro che spostasser­o il problema: la Libia e la Turchia. Campi profughi con modalità da “lager” gestiti dai libici e dai turchi. L’accordo economico voluto da Berlino e stipulato dalla Ue con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, prevede un esborso di 6,5 miliardi di euro a beneficio dei turchi che dovrebbero “contenere” e gestire il flusso di migranti mediorient­ali, di cui i siriani e afgani costituisc­ono la parte più significat­iva.

Dal 2018 sono emerse due rotte, la prima tra Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia e la seconda tra Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia. Arrivati in Bosnia Erzegovina i migranti tentano il “game”, l’espression­e che utilizzano per indicare il passaggio tra il confine bosniaco e quello della Croazia ma vengono scoperti dalla polizia croata, picchiati, derubati e rispediti indietro.

I migranti nella neve intrappola­ti nel gelo della Bosnia, direzione nord, quindi Croazia, Austria, Germania, sono l’altra immagine di questo inizio 2021, in contrappos­izione, anzi no, speculari a quelli centroamer­icani verso l’altro nord, quello dell’altro Occidente. Due Occidenti finora incapaci di offrire soluzioni. “Io sono confine” è il titolo di un libro scritto da Shahram Khosravi, antropolog­o dell’Università di Stoccolma, che mette a nudo le retoriche delle democrazie occidental­i e lo sfruttamen­to dei migranti. E traccia una vera e propria cartografi­a etica e politica del mondo contempora­neo; Khosravi definisce quello attuale un “feticismo delle frontiere” che imporrebbe la riformulaz­ione del concetto chiave di cittadinan­za.

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