LA DELOCALIZZAZIONE DELLE FRONTIERE NON HA FUNZIONATO
Due immagini e una sintesi perfetta. Il dossier “migration” è tra quelli prioritari per Joe Biden. Quell’umanità dolente in cammino, partita dall’Honduras e diretta verso Guatemala, poi Messico e infine Stati Uniti, insegue il vecchio “American dream”, dove il “dream” si è dissolto e trasfigurato, come in un caleidoscopio surreale, nell’incubo di Capitol Hill assediata. Due immagini, appunto, di grande potenza espressiva: la processione dei “sin nada”, i “senza niente” centroamericani, respinti a manganellate dai poliziotti, e la sede del governo nordamericano occupata da migliaia di manifestanti che si riconoscono nello stilema “stop migrants” di Donald Trump.
La delocalizzazione delle frontiere non ha funzionato e non può essere la soluzione: gli Stati Uniti hanno “spostato” il problema finanziando checkpoints, militari e milizie di altri Paesi centroamericani, primo tra tutti il Guatemala. Le cronache dei giorni scorsi mostrano 3mila migranti che hanno scelto come punto di raccolta San Pedro Sula, città honduregna; lungo la strada di una marcia che prevede 40 chilometri al giorno, i migranti sono diventati 8mila ma la processione è terminata in Guatemala, dove un muro di poliziotti con manganelli e lacrimogeni ha respinto i più audaci, quelli delle prime file. Poche ore prima si erano raccolti in preghiera nel villaggio di Vado Hondo, nella regione guatemalteca di Chiquimula; non era un presagio ma la consapevolezza che il blocco dei militari li avrebbe respinti. Per questo, nella pausa di un viaggio complessivo di 4mila chilometri, avevano supplicato, «Non avete cuore, in nome di Dio, fateci passare», un po’ slogan, un po’ litania.
La strada verso nord è sbarrata e solo i più giovani ed energici di questi 9mila centroamericani sapranno inoltrarsi nella boscaglia del Guatemala, confini più porosi dove le milizie non erigono barriere efficaci.
Ma oltre alla strada verso nord è ormai sbarrato anche il progetto della Casa Bianca di Trump che dopo aver adottato una linea dura ai confini con il Rio Bravo, tra Stati Uniti e Messico, ha incassato, due anni fa, un calo di popolarità per le violenze perpetrate a danno dei migranti. Le dichiarazioni della moglie Melania, che espresse pietà verso i migranti, costituirono il punto di svolta. Da lì, la scelta di trovare un accordo con il Messico per istituire il “blocco” e le repressioni un po’ più a sud, ovvero in Centroamerica, la regione da cui proviene la maggior parte dei migranti.
Insomma quella di Trump è stata una inaccettabile scorciatoia, apparentemente politically correct, o nel neologismo diventato di moda, “cultural sensitivity”. Comunque non percorribile. Sul tavolo di Biden c’è la regolarizzazione di 11 milioni di migranti già sul territorio americano ma la grave crisi economica del Centroamerica, aggravata dal Covid e dai due uragani, Lota ed Eta, che hanno investito l’istmo, non dà tregua alla ricerca di una soluzione. Migranti politici, economici e climatici costituiscono l’intreccio di problematiche non affrontabili né con slogan né con check point spostati più a sud.
«Biden ha promesso di smontare completamente la politica migratoria dell’amministrazione Trump. Alcuni cambiamenti sono relativamente facili e si faranno con una semplice firma, altri richiedono processi più lunghi», dice Helena Olea, direttrice di Alianza Américas, una rete di organizzazioni di migranti latinoamericani negli Stati Uniti. Eppure pochi prevedono rivoluzioni.
C’è una forte analogia tra i nodi da sciogliere sul tavolo di Biden e quelli sul tavolo di Bruxelles. È di pochi anni fa la parziale “presa in carico” dell’Europa: negli ultimi trent’anni i migranti africani sbarcati sulle coste italiane venivano considerati un tema nazionale, dell’Italia, appunto, e non sovranazionale. La nostra la posizione geografica, un pontile sul Mediterraneo, aveva consentito che politiche spregiudicate, ideate a Parigi e Berlino, ignorassero la portata del problema, accollandola solamente al Paese di primo sbarco, l’Italia. Poi la soluzione tampone, individuare dei Paesi-filtro che spostassero il problema: la Libia e la Turchia. Campi profughi con modalità da “lager” gestiti dai libici e dai turchi. L’accordo economico voluto da Berlino e stipulato dalla Ue con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, prevede un esborso di 6,5 miliardi di euro a beneficio dei turchi che dovrebbero “contenere” e gestire il flusso di migranti mediorientali, di cui i siriani e afgani costituiscono la parte più significativa.
Dal 2018 sono emerse due rotte, la prima tra Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia e la seconda tra Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia. Arrivati in Bosnia Erzegovina i migranti tentano il “game”, l’espressione che utilizzano per indicare il passaggio tra il confine bosniaco e quello della Croazia ma vengono scoperti dalla polizia croata, picchiati, derubati e rispediti indietro.
I migranti nella neve intrappolati nel gelo della Bosnia, direzione nord, quindi Croazia, Austria, Germania, sono l’altra immagine di questo inizio 2021, in contrapposizione, anzi no, speculari a quelli centroamericani verso l’altro nord, quello dell’altro Occidente. Due Occidenti finora incapaci di offrire soluzioni. “Io sono confine” è il titolo di un libro scritto da Shahram Khosravi, antropologo dell’Università di Stoccolma, che mette a nudo le retoriche delle democrazie occidentali e lo sfruttamento dei migranti. E traccia una vera e propria cartografia etica e politica del mondo contemporaneo; Khosravi definisce quello attuale un “feticismo delle frontiere” che imporrebbe la riformulazione del concetto chiave di cittadinanza.