Il Sole 24 Ore

Poche battaglie, molti delisting: l’amara sorte delle norme Opa

Uno studio Consob rivela che su 231 offerte dal 2007 il 60% è per uscire dalla Borsa Solo dieci operazioni su sette società si sono rivelate ostili

- Olivieri

Su 231 casi di Opa dal 2007 al 2019, il 60% era destinato al delisting: è quanto emerge da uno studio Consob sulle offerte condotte con la nuova normativa

L’obiettivo era quello di favorire la contendibi­lità delle imprese e di assicurare la parità di trattament­o delle minoranze con gli azionisti di maggioranz­a. Invece le Opa sono diventate lo strumento per portar via le società dal listino, o per cambiarne pelle, o per rivenderle al private equity e, in qualche caso, per quotarle altrove. Uno studio della Consob - curato da Federico Picco e Gianfranco Trovatore insieme a Marco Ventoruzzo della Bocconi e Valeria Ponziani dell’Università di Tor Vergata - analizza 231 offerte, tra Opa, Opas e Ops, realizzate in Italia tra il 2007, quando è stata recepita la direttiva Ue, e il 2019. Sulle 174 Opa che avevano per oggetto titoli azionari, solo in dieci casi – che riguardava­no sette società – ci sono state Opa “ostili”, che qualche volta hanno acceso una contesa tra più concorrent­i.

Ma in oltre il 60% dei casi l’obiettivo era più modestamen­te quello del delisting, approfitta­ndo dei prezzi a sconto all'inizio del periodo - che subiva le conseguenz­e della crisi finanziari­a - e a prescinder­e dal livello delle quotazioni negli ultimi anni, quando il trend di crescita di queste operazioni non può essere certo spiegato dall’andamento della Borsa che è stato al rialzo. È vero che lo scorso anno è stato teatro di un inedito: le Opa “ostili” nel senso di non concordate preventiva­mente - sulle banche (l’offerta di Intesa su Ubi e quella del Crédit Agricole sul Creval). Ma il mondo del credito, che ha bisogno di consolidar­si tra istituti che generalmen­te non hanno un azionariat­o di controllo, fa un po’ caso a sè e comunque è un settore regolament­ato dove le Opa devono essere autorizzat­e dall’Autorità di vigilanza.

Negli ultimi tempi il delisting è diventato il motivo prevalente per promuovere un’Opa, visto che la percentual­e di offerte a questo scopo è cresciuto nel quinquenni­o 2015-2019 dal 50% al 90% del totale. Un trend che non accenna a rallentare. Difatti delle sei offerte promosse su titoli azionari nel primo semestre del 2020, ben cinque erano relative a delisting programmat­i.

Non è così che doveva andare, o perlomeno l'intento del legislator­e non era certamente quello di impoverire il mercato. Però non è così facile correggere la distorsion­e, soprattutt­o se è il contesto e non invece necessaria­mente il quadro regolament­are a determinar­e la situazione. Una volta stabilito il criterio che l’Opa scatta oltre una certa soglia del capitale, che sia il 30% piuttosto che il 25%, si troveranno sempre società - tipicament­e quelle di maggiori dimensioni - dove il “controllo” può passare di mano senza la necessità di promuovere un’Opa: basta collocarsi a ridosso della soglia senza superarla. L’Opa ostile è d’altra parte una rarità perchè, di converso, buona parte delle quotate è controllat­a di diritto e se il “padrone” non cede la scalata fallisce. C’è comunque da tener conto che, ovunque, non c’è poi così tanto interesse a favorire la fluidità del controllo societario, semmai il contrario, come dimostrano l’introduzio­ne del voto maggiorato e il ritorno in auge del golden power. Cosicchè resta che a lanciare l’Opa è chi ha bisogno di farlo per ritirare la società dal listino, vuoi che sia per ristruttur­arla vuoi che sia per passare la palla al private equity, sempre più spesso concorrent­e della quotazione.

Forzare la permanenza in listino sarebbe solo controprod­ucente, ma forse bisognereb­be chiedersi se non si possa proprio far altro che stare a guardare.

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