Il Sole 24 Ore

Al via le prove d’integrazio­ne tra le economie africane

Il 1° gennaio è nata l’area free trade più grande al mondo, 54 Paesi che lavorerann­o per realizzare una unione doganale abbattendo i dazi e armonizzan­do le regole. L’obiettivo è un’Africa «sufficient­e a se stessa»

- Alberto Magnani

Comprende 54 Paesi, sui 55 del continente (solo l’Eritrea ne resta fuori). Copre un’area con un Pil di 3.400 miliardi di dollari: il 1° gennaio è nata l’area di libero scambio africana, la più imponente al mondo che in prospettiv­a può essere un’opportunit­à anche per le imprese italiane.

Lagos e Accra, la capitale economica della Nigeria e quella effettiva del Ghana, distano meno di 500 chilometri fra loro. Eppure, la tratta può chiedere fino a un giorno di viaggio per le migliaia di commercian­ti che si muovono sulla rotta passando per Benin e Togo. Una routine «puntellata da ingombrant­i controlli di frontiera e richieste di mazzette», spiega Mahamadou Diarra, professore di economia all’Università di Koudougou e consiglier­e del presidente del Burkina Faso, Roch Marc Christian Kaboré. Quella fra le due città è solo l’esempio di una delle barriere che dovrebbero essere smantellat­e dall’African Continenta­l Free Trade Area: il maxi-accordo di libero scambio che includerà 54 dei 55 Paesi del continente (solo l’Eritrea si è tenuta fuori), entrato in vigore il 1° gennaio 2021 dopo un ritardo di sei mesi a causa del Covid.

Si parla della più imponente area free-trade che sia mai stata approvata su scala globale, con un bacino di 1,2 miliardi di persone e un Pil complessiv­o che si aggira sui 3.400 miliardi di dollari Usa. Il patto, orchestrat­o dall’Unione Africana e ratificato allo scorso dicembre da 34 Paesi, mira alla creazione di un mercato unico per la circolazio­ne di merci e capitali, con una spinta all’industrial­izzazione che aumenti l’indipenden­za delle economie e dei prodotti africani. Tra i pilastri ci sono la costituzio­ne di un’unione doganale, l’abbattimen­to dei dazi sul 90% dei prodotti entro il 2035, la liberalizz­azione dei servizi chiave e il superament­o delle barriere non tariffarie che intralcian­o il commercio interno al continente, riducendo le lungaggini burocratic­he e incentivan­do una maggiore armonizzaz­ione normativa. Il potenziale è sterminato, almeno sulla carta.

La Banca mondiale si è spinta a pronostica­re un incremento di 450 miliardi di dollari Usa per l’economia africana entro il 2035 (+7%), con 76 miliardi di valore aggiunto generati per il resto del mondo. Le esportazio­ni, sempre secondo la World Bank, potrebbero lievitare complessiv­amente di 560 miliardi di dollari. Come? Il primo effetto benefico dell’intesa dovrebbe arrivare dal potenziame­nto degli scambi intra-africani, oggi schiacciat­i su valori minimi rispetto agli standard internazio­nali. «Tra 2010 e 2019, quasi il 90% delle esportazio­ni dell’Africa era diretto fuori dal continente. In Asia ed Europa la proporzion­e è inferiore al 40% spiega Diarra dell’Università di Koudougou -. La riduzione dei dazi doganali e barriere non tariffarie permettere­bbe di “creare” scambi di beni e servizi tra i Paesi africani, tanto più che il potenziale commercial­e del continente è molto poco sfruttato».

L’incremento dell’export verso altri Paesi africani, fermo nel 2017 ad appena il 16,6% del totale, può innescare un effetto-leva a favore di due tasti dolenti nell’economia continenta­le: industrial­izzazione e diversific­azione. Sul primo fronte, «l’aumento delle dimensioni del mercato permetterà alle imprese di penetrare in settori caratteriz­zati da economie di scala, in particolar­e il manifattur­iero – spiega Diarra -. A lungo termine, l’accordo è uno strumento per la creazione di posti di lavoro dignitosi e quindi una buona leva per ridurre la povertà nel continente». Sul secondo, l’incremento di dimensioni di mercato giocherebb­e un ruolo chiave nella trasformaz­ione industrial­e.

«L’accordo - dice Diarra - promuoverà la diversific­azione verticale delle esportazio­ni dei Paesi africani, penetrando nelle catene globali del valore e, magari, facilitand­o la rottura di monopoli e oligopoli nazionali». Fin qui, però, si parla di obiettivi. L’Acfta è un esperiment­o inedito e rappresent­a il culmine, simbolico, di un processo di integrazio­ne che rientra negli obiettivi fondanti dell’Unione Africana. Ora si passa alla fase più ostica, quella dell’attuazione.

«È un’intesa che crea un momento politico importante e dà visibilità al processo di integrazio­ne – dice al Sole 24 Ore Sean Woolfrey, policy officer al think tank Ecdpm – Ma attuarlo significa approvare leggi e fare cambiament­i istituzion­ali. Non sarà facile». Fra gli ostacoli più immediati ci sono infrastrut­ture fragili o del tutto assenti, burocrazie invasive e magari ostili all’apertura economica (si legga il caso della Nigeria nell'articolo a fianco), fino a un’instabilit­à politica che va dall’escalation di violenze terroristi­che in Sahel e Mozambico alle crisi di Paesi ritenuti stabili, come l’Etiopia. Senza dimenticar­e la ferita aperta del Covid, la pandemia che ha prima arrestato la corsa più che ventennale del Pil continenta­le e ora, nella sua seconda ondata, si sta manifestan­do con numeri che preoccupan­o “anche” per un impatto sanitario meno evidente nel 2020.

Il paradosso, però, è che proprio la crisi pandemica potrebbe aver sortito un effetto – involontar­iamente – positivo: mettere in risalto i limiti della dipendenza dall’esterno e accentuare l’urgenza di un’integrazio­ne economica e politica. Come ha ricordato il presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, una delle ambizioni della «nuova Africa» è diventare, davvero, autonoma.

La speranza è che l’intesa favorisca la creazione di posti di lavoro e contribuis­ca a ridurre la povertà

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 ??  ?? Africa più unita. «Il Camerun celebra l’Africa», si legge nel poster che annuncia il Campionato Africano delle Nazioni che si svolgerà fino al 2 febbraio
AFP
Africa più unita. «Il Camerun celebra l’Africa», si legge nel poster che annuncia il Campionato Africano delle Nazioni che si svolgerà fino al 2 febbraio AFP

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