Legge sul voto, il modello sindaci piace al 73%
Di tutte le riforme istituzionali fatte a partire dal crollo della Prima Repubblica la più riuscita è stata quella del sistema di elezione dei sindaci. È l’opinione di chi scrive, ma è anche il giudizio che ne dà la grande maggioranza degli italiani. In un momento in cui sono tornate a farsi sentire le sirene del proporzionale questo giornale ha voluto sondare l’opinione degli italiani sul dilemma proporzionale-maggioritario. Non si poteva fare con una domanda astratta su modelli elettorali di cui la gran parte degli elettori sa poco o nulla. Lo si è fatto chiedendo agli intervistati se giudicassero positivamente l’idea di eleggere premier e parlamento con lo stesso sistema di elezione dei sindaci. È un modello di cui gli elettori hanno esperienza diretta. È dal 1993 che viene utilizzato in due versioni diverse, quella per i comuni sopra e sotto i 15.000 abitanti.
Come è noto, in entrambe le versioni il meccanismo centrale è quello della elezione diretta del sindaco. Nei comuni sopra i 15.000 abitanti questo avviene ricorrendo al ballottaggio nel caso in cui nessun candidato ottenga la maggioranza assoluta dei voti al primo turno. A questo meccanismo è abbinato un sistema proporzionale con premio di maggioranza che assegna al vincente, in quasi tutti i casi, una maggioranza di seggi in consiglio comunale.
Il risultato del nostro sondaggio conferma ampiamente quello che già si sapeva e cioè che questo modello piace agli italiani. A chi più e a chi meno, ma piace a tutti gli elettori di tutti i partiti. Il 38 % degli intervistati è molto d’accordo sulla sua applicazione a livello nazionale. Sommando a questa percentuale quella di chi si dice abbastanza d’accordo (35%) si arriva a un totale di giudizi positivi pari al 73%. Praticamente tre elettori su quattro. Le percentuali più alte si registrano tra gli elettori della Lega e di Fdi. Ma in nessun partito prevale una maggioranza di giudizi negativi. Nemmeno tra i Cinque Stelle.
Perché questo modello piace tanto? La risposta è semplicissima. In un tempo senza ideologie e con partiti morti o moribondi gli elettori tendono a fidarsi solo dei leaders. Li vogliono scegliere direttamente. Li vogliono vedere governare per un congruo lasso di tempo e alla fine del mandato li vogliono giudicare. È un meccanismo trasparente che dal 1993 ha garantito la stabilità ai governi comunali. I giovani non ricordano, ma noi sì, quanto duravano i sindaci prima del 1993. Oggi nella stragrande maggioranza dei comuni durano cinque anni e in tanti comuni ne durano dieci. Questo è un arco di tempo in cui chi ha idee e risorse per governare può farlo rispondendo davanti agli elettori di quello che ha fatto o non ha fatto. Non era così al tempo in cui esistevano partiti veri. Oggi è così. Solo una legittimazione elettorale “diretta” può dare a chi governa una qualche autorità.
La stabilità dei governi non è considerato un valore prioritario dalla nostra classe politica e da buona parte dei nostri giuristi. E invece oggi più che mai dovrebbe esserlo. Come si fa a governare un paese avendo alle spalle maggioranze frammentate e rissose e avendo davanti un orizzonte temporale di poco più di un anno ? Tanto sono durati gli ultimi governi. Come si fa a essere credibili in Europa se nemmeno davanti alla concessione di ingenti finanziamenti siamo capaci di mettere insieme un governo capace di durare e di essere responsabile delle sue azioni ? Come andiamo dicendo da anni, la stabilità non è una condizione sufficiente del buon governo ma ne è certamente una condizione necessaria.
Ebbene, nel momento in cui sono sotto gli occhi di tutti i limiti di un sistema in cui piccoli partiti possono tenere in ostaggio un governo nel bel mezzo di una pandemia, lo stesso governo che è vittima del ricatto propone una riforma elettorale che tende a perpetuare la frammentazione, l'instabilità, il potere dei piccoli e la irresponsabilità dei governi.
Il modello dei sindaci non si può adottare sic et sempliciter al governo nazionale.
È stato adottato anche a livello regionale. Ma a livello nazionale occorrerebbe una riforma costituzionale che prevedesse l’elezione diretta del premier. Questa strada è difficilmente percorribile. E forse non sarebbe nemmeno opportuno farlo. Si può invece ottenere un risultato analogo agendo sul sistema elettorale. Ma in una direzione opposta a quella annunciata da Conte in questi giorni. Tra le riforme strutturali che consentirebbero al nostro paese di rispondere alla sfida posta dalla emergenza sanitaria e economica non ci sono solo quella della giustizia e della amministrazione. Le riforme istituzionali dovrebbero essere un tassello importante del piano di rilancio. È ora di riprendere il discorso interrotto con il referendum del 2016. Quel referendum ha bocciato un uomo non l’idea. Senza trovare il modo di garantire la stabilità e l’efficacia decisionale dei governi non riusciremo mai ad arrestare il declino.