Il Sole 24 Ore

L’esercito si riprende il Myanmar Suu Kyi torna prigionier­a

Con il colpo di Stato il potere passa al generale Min Aung Hlaing La comunità internazio­nale condanna la svolta Cauta reazione di Pechino

- Gianluca Di Donfrances­co

Il fragile e incompleto esperiment­o democratic­o del Myanmar si è interrotto. L’esercito, che nel 2011 ha ceduto solo in parte il potere detenuto dal 1962, ha ripreso il pieno controllo del Paese, con un colpo di Stato e l’arresto di Aung San Suu Kyi. All’alba di ieri, per l’eroina della lotta non violenta contro la dittatura, divenuta capo di Stato di fatto nel 2016, si sono riaperte le porte della prigionia politica, dopo i quasi 15 anni di detenzione domiciliar­e tra il 1989 e il 2010. Nobel per la pace nel 1991, Suu Kyi (75 anni) ha visto la sua immagine sbiadire in questi anni, offuscata dalla pulizia etnica dell’esercito ai danni della minoranza rohingya e dalle tante accuse di non aver mantenuto, da leader, le speranze che aveva suscitato da martire.

Arrestate anche le figure chiave del suo partito, la National League for Democracy (Nld). Il pretesto per il golpe è l’accusa di irregolari­tà nelle elezioni dell’8 novembre, stravinte dalla Nld. Il generale Min Aung Hlaing (64 anni), capo dell’esercito, ha assunto pieni poteri e proclamato lo stato di emergenza. I collaborat­ori di Suu Kyi hanno pubblicato su Facebook un appello, in cui la leader esorta i birmani a non arrendersi. La capitale Naypyidaw e il principale centro economico del Paese, Yangon, sono poi finiti sotto una cupola di silenzio, con il black out di internet e telefoni.

Con il Myanmar cade un’altra tessera nel domino di una deriva autoritari­a che parte da lontano. Solo per restare nella regione, la

Thailandia è in stato di democrazia sospesa, sotto la guida dell’ex generale e oggi premier, Prayut Chan-ocha, che ha conservato il potere, preso con il golpe del 2014, anche dopo le contestate elezioni del marzo 2019. Il Vietnam ha intensific­ato la stretta contro gli oppositori del regime. A Hong Kong, la Cina stronca il dissenso. Anche dopo le aperture democratic­he del Myanmar, il regime di Pechino ne resta il principale partner commercial­e e grande protettore. Non a caso, la Cina si è limitata a prendere atto degli eventi e a invitare tutte le parti al rispetto della Costituzio­ne.

Toni molto diversi dalla secca condanna delle Nazioni Unite, cui hanno fatto eco Unione Europea (e diversi Governi, compresa l’Italia), Gran Bretagna, Giappone, India e perfino la Turchia del sempre più autoritari­o Recep Tayyip Erdoğan. Per l’Amministra­zione americana di Joe Biden si apre subito un nuovo fronte e il presidente ha usato toni decisi. Washington e Londra hanno già varato sanzioni contro il generale Aung Hlaing, per la persecuzio­ne dei rohingya. Bruxelles potrebbe accodarsi e tagliare gli aiuti allo sviluppo. Un nuovo isolamento potrebbe però spingere il Myanmar sempre più tra le braccia della Cina, come succedeva durante i tempi bui della giunta.

Nella sua battaglia per affermare la democrazia in un Paese-paria Paese- paria e prostrato dalla povertà, Suu Kyi ha sacrificat­o gran parte della sua vita. Tenace e coraggiosa, senza mai cedere a toni scomposti, the Lady Ladyy (uno dei suoi molti soprannomi e titolo dell’apologetic­o film di Luc Besson del 2011) è diventata un idolo in patria e p per er l’Occi l’Occidente. dente .

Un idolo ormai insidiato dal crepuscolo, nonostante la popolarità di cui ancora gode, soprattutt­o tra i cittadini della propria etnia, i bamar, che rappresent­ano due terzi della popolazion­e birmana. Alla guida del Paese, Suu Kyi ha mostrato la tendenza ad accentrare poteri e qualche limite politico. Nulla di imperdonab­ile. La disillusio­ne dell’Occidente è però arrivata, amara, nell’agosto del 2017, con la pulizia etnica dei rohingya, prevalente­mente musulmani. Circa 730mila profughi furono costretti a cercare scampo in Bangladesh, per sfuggire ad atrocità da genocidio: 10mila morti, stupri di massa, centinaia di villaggi incendiati, incarceraz­ione dei reporter che cercavano di testimonia­re la tragedia. Così, l’11 dicembre del 2019, il Nobel per la pace si ritrova sul banco degli imputati della Corte internazio­nale di giustizia (Icj), all’Aja. Suu Kyi non è accusata in prima persona, ma continua a negare il genocidio, descrivend­o le violenze come «un conflitto armato interno». Anche la Corte penale internazio­nale ha avviato un’inchiesta sul Myanmar, per crimini contro l’umanità.

Le stesse elezioni di novembre sono state criticate dalle organizzaz­ioni internazio­nali, proprio perché hanno escluso oltre un milione di rohingya e di appartenen­ti a ad d al altre tre etnie. Cinicament­e, nella dichiarazi­one in cui impongono lo stato di emergenza, i militari fanno riferiment­o a queste accuse: « Finché la questione non sarà risolta, sarà un ostacolo al processo democratic­o».

I sostenitor­i di Suu Kyi l’hanno costanteme­nte difesa, sottolinea­ndo che il fragile Governo civile del Myanmar non poteva permetters­i di tirare troppo la corda con il Tatmadaw, l’esercito birmano, capace di riprenders­i il potere i n qualsiasi momento.

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Stato d’emer d’emergenza. genza. Strade bloccate dai corazzati dell’esercito nella capitale Nayp Naypyidaw yidaw AFP
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DI NUOVO AGLI ARRESTI La leade leader r del Myanmar, Aun Aung g Saan Suu Kyi, prigionier­a dei militari
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Il nuovo missile iraniano in grado di trasportar­e un satellite
Il lancio. Il nuovo missile iraniano in grado di trasportar­e un satellite

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