Il dilemma di Biden su rappresaglie e sanzioni
L’obiettivo è non spingere il Paese sempre più nell’orbita della Cina
La La prima prima crisi crisi internazionale internazionale per per l’ amministrazione l’ amministrazione di diJoeJoeB id enè esplosa a Myanmar. Il colpo di stato delle forze armate ha posto un immediato dilemma per la Casa Bianca: la necessità di far scattare una condanna e di considerare rappresaglie e nuove sanzioni. Senza ignorare però la preoccupazione di spingere sempre più l’ex Burma nell’orbita politica ed economica della Cina, suo grande difensore e patrono.
Washington ha preso posizione fin dalle prime ore del golpe e degli arresti dei leader civili a cominciare da Aung San Suu Kyi, il cui partito al governo aveva vinto le elezioni dello scorso novembre ora cancellate dai militari. Il portavoce di Biden, Jen Psaki, ha definito la svolta «allarmante» e fatto sapere che «gli Stati Uniti sono contrari a qualunque tentativo di alterare i risultati di recenti elezioni o impedire la transizione democratica a Myanmar». Psaki ha aggiunto che «verranno prese azioni contro i responsabili» in assenza di una marcia indietro dei militari.
Più circospetta è parsa la prima dichiarazione del Segretario di Stato Antony Blinken, dura ma che ha evitato di minacciare esplicitamente sanzioni. Blinken ha espresso «grande allarme e preoccupazione». Ha continuato: «Siamo al fianco della popolazione nella loro aspirazione per la democrazia, la libertà, la pace e lo sviluppo». E «le forze armate devono immediatamente ritirare il loro intervento».
Per Biden le pressioni per una risposta efficace sono particolarmente intense. Ha fatto della difesa di diritti umani e democrazia un pilastro della sua visione di politica estera e leadership internazionale, elemento di contrasto con gli approcci “mercantilisti” per i quali ha criticato il predecessore D on aldTrump.L’ amministrazione democratica di BarackOb ama, nella quale Bi de nera stato vicepresidente, aveva inoltre svolto un ruolo cruciale nell’incoraggiare l’ avvio negli scorsi dieci annidi un passaggio alla democrazia a Myanmar, grazie a graduali allentamenti di sanzioni economiche. Obama divenne il primo Presidente statunitense a visitare il Paese nel 2012.
La realtà di Myanmar – e del potere dell’esercito - ha tuttavia continuato a porre sfide per Washington, anche prima del golpe. I massacri e le espulsioni della minoranza musulmana dei Rohingya con brutali campagne militari scatenate nel 2017, hanno sollevato accuse di g genocidio enocidio e o offuscato ffuscato la reputazione della stessa Suu Kyi (che nel 1991 era stata insignita del Nobel per la pace) per aver difeso simili azioni nei consessi mondiali. L’amministrazione Trump, davanti a quegli eventi, aveva parlato di «pulizia etnica» anche se il Segretario di Stato Mike Pompeo aveva glissato su denunce di genocidio. Blinken, durante le recenti audizioni parlamentari per la conferma a neo Segretario di Stato, ha però riaperto la questione annunciando un nuovo esame per decidere se la persecuzione della minoranza musulmana legittimi l’accusa di genocidio.
Altri esponenti dell’amministrazione Biden sono già stati più espliciti: Samantha Power, oggi alla guida dell?Agenzia per lo sviluppo internazionale ed ex ambasciatrice all’Onu, aveva definito gli attacchi ai Rohingya senza mezzi termini un «genocidio». Sostegno esiste in Congresso. Nel 2018 la Camera Usa aveva a larga maggioranza approvato una risoluzione in questo senso. E all’indomani del nuovo colpo di stato, il senatore democratico Bob Menendez, prossimo presidente della Commissione Esteri del Senato, ha chiesto «severe sanzioni».