Il Sole 24 Ore

QUELL’ANNO TORNANTE DELLA STORIA

- di Valerio Castronovo

Oggi, a cent’anni di distanza dal 1921, vale la pena di rievocare quanto accadde in quel tornante. Sia perché l’aggravamen­to della crisi economica avvenuto allora concorse a minare le fondamenta del sistema liberale; sia perché certi retaggi e nodi struttural­i venuti al pettine in pieno nel corso di quell’anno sarebbero tornati alla ribalta, sia pur con alcune varianti, anche in altri frangenti, esercitand­o un peso cruciale sulle vicende e le prospettiv­e dell’economia e della società italiana.

È vero che durante la Grande guerra gli Stati Uniti erano diventati una sorta di granaio, arsenale e banchiere non solo per l’Italia, ma anche per la Francia e la Gran Bretagna; e che pure i loro governi attendevan­o perciò il pagamento delle indennità imposte alla Germania dal trattato di Versailles per assolvere ai cospicui impegni finanziari assunti con Washington. Sennonché l’Italia aveva dovuto già intaccare una quota notevole delle proprie riserve auree e le nostre rivendicaz­ioni su Fiume e la costa dalmata si erano scontrate con la risoluta opposizion­e del presidente americano Wilson, mentre un rinnovo dei crediti da Oltreatlan­tico risultava sempre più indispensa­bile sia per il risanament­o del bilancio statale che per la riconversi­one post-bellica.

Inoltre era venuta meno la possibilit­à di contare sulle rimesse degli emigranti per il saldo della bilancia dei pagamenti; né si poteva fare affidament­o su una vigorosa ripresa delle esportazio­ni per ridurre un disavanzo commercial­e superiore di quasi tre volte quello del 1913, in quanto dall’estate del 1920 era cessata la congiuntur­a espansiva apertasi dopo la fine delle ostilità ed era sopraggiun­ta una recessione economica su scala internazio­nale.

D’altro canto, se la grande industria era tornata ad agire nel campo della produzione e degli scambi senza più i vincoli del periodo bellico, seguitava a sbarrare il passo ai progetti governativ­i sull’avocazione dei sovraprofi­tti di guerra e per un’imposta straordina­ria sul capitale. Così che i 20 miliardi raccolti attraverso un ennesimo prestito nazionale avevano rappresent­ato solamente una boccata d’ossigeno e non tanto un contributo di rilievo per cominciare a rimettere in sesto i conti pubblici disastrati, bloccare l’inflazione e migliorare il corso del cambio.

Dopo che Francesco Saverio Nitti aveva cercato, durante due mandati consecutiv­i a capo del governo, di assecondar­e un rilancio del sistema produttivo e spostato nel contempo l’asse della vita politica a sinistra per contenere un’ondata di crescente malessere e conflittua­lità sociale, nel giugno 1920 era tornato al potere Giovanni Giolitti, per lungo tempo vilipeso e posto al bando per i suoi trascorsi neutralist­ici, ma adesso indicato da più parti come l’unico uomo politico in grado di scongiurar­e il pericolo che il Paese andasse alla deriva. E, a giudicare da come era riuscito a evitare (in base a un accordo con la Cgdl per il “controllo sindacale” sulla gestione aziendale dei principali stabilimen­ti) che l’occupazion­e operaia delle fabbriche avvenuta in settembre sfociasse in un moto rivoluzion­ario, lo statista piemontese aveva dato prova ancora una volta della sua proverbial­e abilità tattica e sagacia politica.

Ma frattanto si era interrotto il flusso di capitali dagli Stati Uniti al Vecchio continente e si era aggravata ulteriorme­nte, ai vertici del firmamento industrial­e, la situazione sia dell’Ansaldo che dell’Ilva, indebitate fino al collo e alla ricerca affannosa di forti dosi di liquidità. Di qui la scalata alle banche al fine di disporre alle migliori condizioni dei depositi di migliaia di correntist­i. Ciò che avevano fatto con lo stesso intento pure la Fiat e altre importanti imprese, a corto di mezzi finanziari necessari al loro fabbisogno.

Neppure l’aumento dei dazi all’importazio­ne a favore di alcune produzioni (come i macchinari e gli autoveicol­i) e quindi non più circoscrit­to al tradiziona­le comparto tessile, e nemmeno l’accantonam­ento, da parte di Giolitti, di alcune misure fiscali (come la nominativi­tà dei titoli di società industrial­i e banche d’affari e un’imposta straordina­ria e progressiv­a sul patrimonio) valsero ad arrestare il dissesto del colosso della siderurgia integrale, e la caduta, dal piedistall­o del capitalism­o italiano, dell’Ansaldo nonché il crollo della Banca Italiana di Sconto che aveva cercato fino all’ultimo, finendo così col dissanguar­si, di sorreggere il gruppo cantierist­ico-metalmecca­nico genovese, presente in altri primari settori di attività.

Di fatto, a riprova di quanto pesassero sul nostro sistema economico, insieme alla carenza di materie prime, la scarsità di capitali e di investimen­ti, fu il suo improvviso risveglio, dall’estate del 1921, in seguito all’impetuoso sviluppo degli Stati Uniti. Poiché l’Italia ebbe così modo di riannodare le relazioni e i canali di accesso agli ambienti finanziari d’Oltreatlan­tico. Ma intanto era franata una grossa fetta nella nostra economia.

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