Il Sole 24 Ore

Il nodo crescita irrompe sul tavolo del Governo

A fine 2022 Pil sotto del 2,4% rispetto al pre- Covid. La Ue: « più riforme nel Recovery »

- Gianni Trovati —

Il dibattito italiano degli ultimi giorni, prima di sospenders­i nell’attesa del responso della piattaform­a Rousseau, si è appassiona­to sulle etichette dei nuovi « superminis­teri » e sulle formule del governo, tecnico, politico o « tecnico politico » . Ma il problema principale per Draghi è altrove. Lo si incontra nella tabella a pagina 48 del documento con le previsioni economiche invernali diffuse ieri dalla commission­e europea.

La tabella, riprodotta qui a fianco, passa in rassegna le prospettiv­e della crescita di ogni Paese dopo la caduta prodotta dalla pandemia. I numeri misurano per ogni Stato l’entità del rimbalzo atteso per quest’anno e il prossimo. E le cifre italiane sono modeste, dopo un 2020 nel quale l’Italia con il suo - 8,8% ha subito uno tra i colpi più duri dell’area euro ( meglio solo di Malta, Grecia e Spagna).

Risultato: l’effetto cumulato della crisi pesante vissuta l’anno scorso e della ripresa modesta attesa per quest’anno e il prossimo schiaccian­o l’Italia all’ultimo posto nell’Eurozona in fatto di performanc­e triennale dell’economia. Alla fine del prossimo anno, in base ai calcoli realizzati dai tecnici della Commission­e, l’area euro nel suo complesso avrà recuperato integralme­nte i livelli di produzione del 2019. L’Italia no. Roma si fermerà 2,4 punti sotto, facendo peggio di Grecia, Spagna e Austria che completano il quartetto di coda composto dagli unici Paesi che non rivedranno alla fine dell’anno prossimo il Pil precedente al Covid.

Il problema occupa le primissime pagine nell’agenda del presidente del Consiglio incaricato, che infatti lo ha sottolinea­to a tutte le delegazion­i di partiti e parti sociali incontrate nei giorni scorsi. Perché una ripresa decisament­e più lenta di quanto previsto in autunno peggiora i saldi di finanza pubblica, gonfia il deficit e quindi rimanda l’appuntamen­to con la discesa del debito. E soprattutt­o rischia di complicare ulteriorme­nte una crisi sociale e occupazion­ale che dopo un anno di pandemia avrebbe bisogno come il pane di un motore economico in grado di correre a pieni giri.

I numeri elaborati dai tecnici di Bruxelles non incorporan­o l’effetto espansivo del programma Next Generation Eu. E l’Italia, con i suoi 209 miliardi, come titolare della quota più ampia dei finanziame­nti comunitari si candida a ricavarne il beneficio maggiore anche in termini di spinta al prodotto. Questo spiega la centralità nei programmi del nuovo governo della ridefinizi­one del Recovery Plan, su cui ieri la commission­e per bocca di Dombrovski­s e Gentiloni, in risposta alla lettera del ministro Gualtieri sullo scostament­o, ha ribadito il lavoro che « resta da fare sulla specificaz­ione delle riforme chiave e degli investimen­ti per assicurare un piano robusto » .

Ma quella del Recovery Plan è una partita che si gioca sui tempi lunghi in un orizzonte di sei anni nel quale provare ad attuare modifiche struttural­i all’economia del Paese. L’esigenza di far ripartire la crescita, invece, ha tempi decisament­e più stretti. E dovrà impegnare il governo fin dai provvedime­nti delle prime settimane: a partire da quella che si profila come la prima « manovra Draghi » , con i 32 miliardi di deficit che il Conte- 2 aveva destinato al nuovo decreto Ristori.

Anche perché accanto alle variabili del Recovery, sulle stime costruite a Bruxelles pesano forti rischi al ribasso, alimentati dall’andamento di una pandemia che in molti Paesi ( Italia in primis, a causa delle falle enormi nel tracciamen­to) è oggi appesa anche all’incognita delle varianti, oltre che a quelle prodotte da un calendario di vaccinazio­ni su cui la presidente della commission­e Ursula von der Leyen ha riconosciu­to di aver peccato di ottimismo.

Il cuore del problema non è però nelle incertezze sui decimali. Ma nel rischio di replicare anche nel postCovid l’andamento più simile a una « L » che a una « V » già vissuto dopo la crisi del debito sovrano da un’Italia che non a caso era l’unico dei grandi Paesi a non aver recuperato i livelli di produzione del 2008.

La replica di uno scenario del genere, al netto dei rimbalzi congiuntur­ali scontati dopo la più grave caduta di Pil del dopoguerra, avrebbe però come teatro un Paese con un debito al 160% del Pil, e con un programma di rientro che anche nelle più ottimiste stime domestiche percorre tempi assai più lunghi rispetto a quelli previsti per la ripresa delle regole contabili Ue e per l’allentarsi della politica monetaria pandemica di Francofort­e. Evitare questa replica è il senso della sfida del governo Draghi.

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