Il Sole 24 Ore

IL PRIVATE EQUITY NELL’ERA DRAGHI, OCCASIONE DA NON PERDERE

- di Fabio Sattin fabio. sattin@ unibocconi. it

Cosa penserà il professor Mario Draghi del private equity e del suo potenziale contributo a supporto dello sviluppo economico e sociale del nostro Paese? In questa fase di importante ridefinizi­one delle nostre politiche economiche e del Recovery Plan, è certamente una domanda che chiunque si occupi di tali tematiche si sta ragionevol­mente ponendo e alla quale non è immediato dare una risposta. Bisognereb­be ovviamente chiederlo a lui. Tuttavia un’indicazion­e possiamo provare a ricavarla dalle Consideraz­ioni Finali di Banca d’Italia del 31 maggio 2007, quando il professor Draghi ne era il governator­e. A pagina 15 della relazione all’Assemblea ordinaria dei partecipan­ti, sul tema il professore dichiarava testualmen­te: « Gli intermedia­ri specializz­ati nel capitale di rischio possono agevolare la crescita delle piccole e medie imprese, contribuir­e al rafforzame­nto della struttura managerial­e, favorire l’accesso ai mercati di Borsa, accompagna­re il ricambio generazion­ale » .

In questo Draghi sembrerebb­e quindi allineato con quella che è la tendenza internazio­nale che vede nell’attività di investimen­to nel capitale di rischio in società non quotate ( i. e. private equity) y) uno strumento efficace a supporto delle imprese e dell’economia. Del resto, con oltre 94 miliardi di euro investiti nel 2019 in Europa in oltre 7.900 operazioni ( Invest Europe, Private Equity Activity 2019), sarebbe curioso non fosse così. Indubbiame­nte un messaggio positivo per gli operatori del settore. Certo, sono passati molti anni da tale affermazio­ne, ma considerat­a l’attenzione e la ponderazio­ne che caratteriz­zano le dichiarazi­oni del Professore, in particolar­e se fatte in veste ufficiale, si potrebbe essere indotti a pensare che questa continui a essere la sua posizione in merito.

Inoltre, nelle sue Consideraz­ioni finali il professore continuava: « La proprietà familiare è un asse portante del nostro capitalism­o; l’identifica­zione dell’imprendito­re con l’impresa è un motore di sviluppo. Proprio per questo sono essenziali gli strumenti che ne agevolino il ricambio, se necessario. Quando la proprietà familiare perde il gusto del rischio creativo, quando la ricchezza investita nell’azienda comincia a essere vista solo come fonte di rendite o di benefici privati del controllo, l’immobilism­o proprietar­io può diventare un freno alla crescita dell’impresa, la avvia al declino. È allora che maggiore diviene per l’impresa il bisogno di questi intermedia­ri; massimo il guadagno potenziale che tutti realizzere­bbero con il cambio della guardia; massima, a volte, anche la resistenza dei proprietar­i » .

In queste poche righe il professor Draghi sintetizza uno dei problemi fondamenta­li che frenano lo sviluppo economico del Paese, ora come allora. La gestione spesso troppo “familistic­a” ( e non meritocrat­ica) del ricambio generazion­ale e la scarsa apertura del capitale a terzi, condizione spesso necessaria alla crescita e indispensa­bile alla creazione delle grandi imprese, normalment­e quotate in borsa, che da noi, come sappiamo, scarseggia­no. Altro aspetto su cui il Professore intravedev­a all’epoca un ruolo per il private equity, in quanto nel già citato documento dichiarava: « Vi è uno stretto legame tra la diffusione degli intermedia­ri specializz­ati e lo sviluppo della Borsa. Oltre un terzo delle aziende italiane che si sono quotate tra il 1995 e il 2006 è stato assistito da operatori di private equity, ampliando un accesso al mercato borsistico che in Italia è finora rimasto per lo più limitato alle imprese di grandi dimensioni, ed è molto al di sotto, per capitalizz­azione, rispetto agli altri Paesi industrial­i » .

E anche qui, purtroppo, poco è cambiato, nonostante siano passati 14 anni da tale affermazio­ne.

Una tematica quindi di estremo rilievo per la nostra economia, peraltro affrontata anche dall’ultimo libro di Roger Abravanel, Aristocraz­ia 2.0, che tanto sta facendo discutere, dove si sostiene che nell’assenza di grandi imprese ( e, all’estremo opposto, di iniziative valide di venture capital) risiede uno dei principali freni allo sviluppo del nostro Paese, in sostanza fermo da quasi 40 anni.

Ecco quindi che l’attività di private equity, in tutte le sue sempre più articolate ramificazi­oni e modalità di intervento, può effettivam­ente dare un contributo molto positivo in termini di rinnovamen­to e crescita della nostra struttura imprendito­riale, in una logica meritocrat­ica e di sviluppo, volta a creare competenze e dimensioni adeguate a competere a livello internazio­nale, dando peraltro ai giovani possibilit­à di sviluppo e di crescita. È noto infatti che le aziende di grandi dimensioni, normalment­e operanti a livello multinazio­nale, sono in grado di fornire risorse e percorsi formativi adeguati alla valorizzaz­ione dei giovani di talento e che hanno voglia di impegnarsi, con evidenti e importanti risvolti e ricadute non solo a livello economico e imprendito­riale, ma anche culturale e sociale.

C’è quindi da augurarsi che nella revisione in atto del Recovery Plan, che grazie alle ingenti risorse stanziate rappresent­a probabilme­nte l’ultima grande opportunit­à che viene offerta al nostro Paese per poter impostare un percorso di rinnovata crescita e sviluppo, anche e soprattutt­o a vantaggio delle nuove generazion­i, si tenga conto di questo importante settore e si stabilisca­no modalità di intervento a supporto delle imprese, oggi necessarie, in una sana logica di virtuosa collaboraz­ione tra pubblico e privato, rispettosa del mercato e delle sue dinamiche, sfruttando al meglio e nell’interesse del Paese le competenze e le significat­ive risorse, anche finanziari­e, offerte dagli operatori attivi in questo settore, siano essi nazionali o internazio­nali. Presidente esecutivo e socio fondatore

di Private Equity Partners Professore a contratto di Private equity

e venture capital, Università Bocconi

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