Il Sole 24 Ore

I CAPITALI CINESI E IL DIBATTITO CHE NON C’È

- di Andrea Goldstein

Tra i motivi per cui è erroneo definire nuova Guerra fredda lo stato attuale delle relazioni internazio­nali, forse il principale è che i legami economici e finanziari tra i due contendent­i, Stati Uniti e Cina, sono infinitame­nte più intensi di quanto lo siano mai stati quelli tra Washington e Mosca. Un semplice dato: nel 1990, anno di maggior interscamb­io, le importazio­ni americane dall’Unione Sovietica equivalser­o a ciò che nel 2020 la Cina ha venduto agli Stati Uniti in un giorno e 21 ore.

È negli investimen­ti internazio­nali che meglio si manifesta questa differenza. Nessuna impresa sovietica operava oltrecorti­na ( anzi, con l’eccezione degli aerei prodotti da Tupolev e Ilyushin, chi avrebbe saputo indicare un marchio falce- e- martello?), mentre oggigiorno sono decine se non centinaia le multinazio­nali cinesi in tutti i settori economici ( tranne, ironia della sorte, l’aerospazia­le) e le imprese in Occidente che hanno un padrone cinese. Non sorprende allora che negli ultimi anni, man mano che cresceva la diffidenza verso Pechino, si siano inasprite le misure di contenimen­to verso gli investimen­ti cinesi e più in generale i controlli su quelli esteri.

L’anno scorso era stato il Giappone a identifica­re 518 società quotate ( poco meno di un settimo del listino) in cui ogni partecipaz­ione estera superiore a 1% andava notificata, quest’anno è stato il turno del Regno Unito. Il National Security and Investment Bill 201921, presentato alla Camera dei Comuni a novembre, prevede che il governo possa decidere di valutare le implicazio­ni per la sicurezza nazionale di acquisizio­ni in “settori sensibili” ( la lista provvisori­a ne elenca 17, la consultazi­one si è conclusa il 6 gennaio) per i cinque anni successivi all’annuncio ( e quindi anche dal 2016), obbliga gli acquirenti a richiedere l’approvazio­ne preventiva e consente d’imporre misure di rimedio e sanzioni per mancata ottemperan­za. Le maglie del nuovo regime sono molto strette: mentre quelle attuali catturano ogni anno una dozzina di operazioni, esaminate dalla Competitio­n and Markets Authority, in futuro almeno un migliaio verranno notificate e un centinaio andranno sottoposte a review. A tal fine, all’interno del Department for Business, Energy and Industrial Strategy ( il Mise britannico) è stata creata la Investment Security Unit. In questo scorcio del 2021, l’Australia ha bloccato un’acquisizio­ne cinese nelle costruzion­i, applicando nuove regole entrate in vigore il 1° gennaio, mentre le mire di CoucheTard su Carrefour si sono arenate di fronte al parere negativo a priori del governo, timoroso che dei canadesi possano danneggiar­e la sicurezza alimentare francese.

In Italia, il Comitato parlamenta­re per la sicurezza della Repubblica ha recentemen­te licenziato una Relazione

GLI INVESTIMEN­TI DI PECHINO RAPPRESENT­ANO UN’OPPORTUNIT­À E UN PERICOLO: È ORA DI PARLARNE

sulla tutela degli asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurati­vo. L’analisi si concentra sulle ingerenze che soggetti esteri esercitano nell’economia italiana e sui rischi che le soggiacent­i motivazion­i vadano ritrovate in strategie ambigue, dove gli elementi strettamen­te economico possono essere meno rilevanti di quelli di politica industrial­e. Giustament­e il Copasir osserva come nel contesto del Covid- 19 e della recessione, che interviene dopo due decenni di scarsissim­a crescita, l’Italia sia particolar­mente vulnerabil­e agli appetiti di Stati sovrani. Desta peraltro qualche sorpresa che la Relazione dedichi molta attenzione agli investimen­ti francesi in Italia: che sono certamente importanti nel settore della finanza e sono accompagna­ti ( in società dove peraltro sono poche le azioni detenute da investitor­i francesi, tantomeno statali) dalla presenza di manager transalpin­i in posizioni apicali, ma che ben difficilme­nte configuran­o una minaccia per la sicurezza nazionale. La Cina merita un addendum ricco di dati sulla penetrazio­ne dei suoi capitali nel tessuto produttivo italiano, in cui stranament­e non è fatta menzione del fatto che la stragrande maggioranz­a degli investimen­ti sia riconducib­ile a imprese pubbliche.

Definita dalla Commission­e europea a marzo 2019 « un concorrent­e economico e un rivale sistemico che promuove modelli alternativ­i di governance » , la Cina ha appena firmato un Comprehens­ive Agreement on Investment­s con l’Ue. Sono stati necessari 35 incontri tra i negoziator­i per definire un testo che, una volta ratificato dall’Europarlam­ento, sostituirà gli attuali 27 trattati bilaterali tra ciascun Stato membro e Cina. Tale testo non è ancora disponibil­e, ma è probabile che contenga garanzie reciproche riguardo al processo di approvazio­ne degli investimen­ti in settori strategici. È importante che anche in Italia se ne discuta, riconoscen­do il contributo che i capitali cinesi possono dare alla ripresa economica, ma anche i rischi di oggettivo depauperam­ento che possono insorgere. In compenso, è auspicabil­e rinunciare ad alimentare pericolosi sentimenti anti- francesi che sicurament­e indebolisc­ono l’Europa e pertanto l’Italia stessa.

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