LO SMART WORKING STA RIDUCENDO LA CAPACITÀ DI CREARE INNOVAZIONE
Al di là degli angosciosi dubbi legati agli effetti della pandemia, una delle domande più frequenti che vengono poste da imprenditori e manager a noi consulenti di organizzazione in questo momento è: lo smart working che tutte le aziende italiane hanno dovuto adottare in seguito alla pandemia, sta abbassando o migliorando la produttività aziendale?
La domanda è tutt’altro che accademica: occorre capire velocemente se l’azienda non stia soffrendo a causa della remotizzazione e, in caso positivo, quali correttivi mettere in atto. La congiuntura economica non lascia spazio per attendismi.
Certo, la situazione attuale di tante aziende è a dir poco drammatica, ma, anche in mancanza di dati consolidati, la sensazione che sta emergendo in questi mesi tanto in Italia che nel mondo è che in realtà la produttività individuale non stia calando lavorando in remoto, anzi, in molti casi, stia addirittura aumentando, almeno nel privato.
Questa sarebbe un’ottima notizia, spiegabile, oltre che con la notevole capacità di reazione mostrata da tante nostre aziende, anche con le positive ricadute che lo smart working sta avendo sui dipendenti in termini di riduzione dei tempi di trasporto, maggiore compatibilità casa- lavoro, responsabilizzazione individuale. Il minore ricorso a giorni di malattia e assenteismo che si sta verificando un po’ dovunque viene spesso citato come indicatore di buona salute nel rapporto azienda- dipendente; in modo analogo, le indagini, per lo più qualitative, condotte internamente alle aziende sull’impatto dello smart working raccolgono in media percezioni positive sia da parte dei dipendenti che dei datori di lavoro.
Tutto bene dunque? Non necessariamente, purtroppo. Vediamo perché.
Un fantasma s’aggira nei corridoi delle aziende che stanno adottando in modo massivo modalità di lavoro remotizzate: il calo strisciante, ma sensibile del livello di engagement dei dipendenti e la loro capacità di creare innovazione.
La ricerca scientifica ma anche l’esperienza consulenziale di prima mano stanno evidenziando una realtà duplice: da un lato, molti dipendenti, pur mediamente soddisfatti di poter lavorare in modo più flessibile che in passato, rischiano di smarrire l’identificazione con l’azienda e con il proprio lavoro, perdendo alla fine in motivazione e fidelizzazione.
Dall’altro lato, la minore copresenza in ufficio sta riducendo tante occasioni di lavorare insieme ai colleghi su attività più creative, più destrutturate, più interattive: proprio quelle che servono per creare innovazione, sia radicale che incrementale, sia di prodotto che di processo.
Tanto l’engagement quanto l’innovazione sono direttamente dipendenti dalla frequenza e intensità di interazioni, molte delle quali casuali e informali. C’ è bisogno insomma di una banda largaC’ è bisogno insomma di una banda larga di comunicazione e la riunione in video spesso non ne fornisce abbastanza: troppo fredda, troppo strutturata, troppo centrata sui contenuti e troppo poco sulle relazioni e le emozioni.
In altri termini, anche se è molto frequente rilevare empiricamente che la produttività, anche in periodi di lockdown, ha continuato ad aumentare, la sensazione diffusa da imprenditori e manager è che il ritmo di miglioramento stia rallentando e rischi di raggiungere in un futuro anche vicino un plateau in cui smette di mostrare un progresso: la competitività potrebbe non essere sostenibile nel tempo.
Non si può pensare che il problema svanisca con la fine della pandemia: l’adozione di un qualche livello di smart o oremote remote working quasi certamente diventerà un elemento strutturale del nostro modo di lavorare. Il problema è poi amplificato da un ulteriore fattore: questi fenomeni sono difficilmente misurabili, quantomeno nel breve termine, e il rischio è quindi di fare i conti con il problema troppo tardi.
Il fatto che in questo momento le aziende siano, giustamente, focalizzate a garantire un accettabile livello di produttività, di liquidità o di servizio non fa altro che rendere il rischio ancora più forte, perché non si creano le condizioni per identificare il problema e tentare un’inversione di marcia.
Si sta creando dunque una classica situazione di “angolo cieco”, ben conosciuta dagli automobilisti, in cui proprio le vetture più vicine – e dunque più pericolose in caso di cambio di corsia – non sono dentro l’angolo visuale dello specchietto retrovisore: se non vedo il pericolo, come posso evitarlo?