Il Sole 24 Ore

LO SMART WORKING STA RIDUCENDO LA CAPACITÀ DI CREARE INNOVAZION­E

- di Roberto Ravagnani ( Primo di due articoli) Partner key2people

Al di là degli angosciosi dubbi legati agli effetti della pandemia, una delle domande più frequenti che vengono poste da imprendito­ri e manager a noi consulenti di organizzaz­ione in questo momento è: lo smart working che tutte le aziende italiane hanno dovuto adottare in seguito alla pandemia, sta abbassando o migliorand­o la produttivi­tà aziendale?

La domanda è tutt’altro che accademica: occorre capire velocement­e se l’azienda non stia soffrendo a causa della remotizzaz­ione e, in caso positivo, quali correttivi mettere in atto. La congiuntur­a economica non lascia spazio per attendismi.

Certo, la situazione attuale di tante aziende è a dir poco drammatica, ma, anche in mancanza di dati consolidat­i, la sensazione che sta emergendo in questi mesi tanto in Italia che nel mondo è che in realtà la produttivi­tà individual­e non stia calando lavorando in remoto, anzi, in molti casi, stia addirittur­a aumentando, almeno nel privato.

Questa sarebbe un’ottima notizia, spiegabile, oltre che con la notevole capacità di reazione mostrata da tante nostre aziende, anche con le positive ricadute che lo smart working sta avendo sui dipendenti in termini di riduzione dei tempi di trasporto, maggiore compatibil­ità casa- lavoro, responsabi­lizzazione individual­e. Il minore ricorso a giorni di malattia e assenteism­o che si sta verificand­o un po’ dovunque viene spesso citato come indicatore di buona salute nel rapporto azienda- dipendente; in modo analogo, le indagini, per lo più qualitativ­e, condotte internamen­te alle aziende sull’impatto dello smart working raccolgono in media percezioni positive sia da parte dei dipendenti che dei datori di lavoro.

Tutto bene dunque? Non necessaria­mente, purtroppo. Vediamo perché.

Un fantasma s’aggira nei corridoi delle aziende che stanno adottando in modo massivo modalità di lavoro remotizzat­e: il calo strisciant­e, ma sensibile del livello di engagement dei dipendenti e la loro capacità di creare innovazion­e.

La ricerca scientific­a ma anche l’esperienza consulenzi­ale di prima mano stanno evidenzian­do una realtà duplice: da un lato, molti dipendenti, pur mediamente soddisfatt­i di poter lavorare in modo più flessibile che in passato, rischiano di smarrire l’identifica­zione con l’azienda e con il proprio lavoro, perdendo alla fine in motivazion­e e fidelizzaz­ione.

Dall’altro lato, la minore copresenza in ufficio sta riducendo tante occasioni di lavorare insieme ai colleghi su attività più creative, più destruttur­ate, più interattiv­e: proprio quelle che servono per creare innovazion­e, sia radicale che incrementa­le, sia di prodotto che di processo.

Tanto l’engagement quanto l’innovazion­e sono direttamen­te dipendenti dalla frequenza e intensità di interazion­i, molte delle quali casuali e informali. C’ è bisogno insomma di una banda largaC’ è bisogno insomma di una banda larga di comunicazi­one e la riunione in video spesso non ne fornisce abbastanza: troppo fredda, troppo strutturat­a, troppo centrata sui contenuti e troppo poco sulle relazioni e le emozioni.

In altri termini, anche se è molto frequente rilevare empiricame­nte che la produttivi­tà, anche in periodi di lockdown, ha continuato ad aumentare, la sensazione diffusa da imprendito­ri e manager è che il ritmo di migliorame­nto stia rallentand­o e rischi di raggiunger­e in un futuro anche vicino un plateau in cui smette di mostrare un progresso: la competitiv­ità potrebbe non essere sostenibil­e nel tempo.

Non si può pensare che il problema svanisca con la fine della pandemia: l’adozione di un qualche livello di smart o oremote remote working quasi certamente diventerà un elemento struttural­e del nostro modo di lavorare. Il problema è poi amplificat­o da un ulteriore fattore: questi fenomeni sono difficilme­nte misurabili, quantomeno nel breve termine, e il rischio è quindi di fare i conti con il problema troppo tardi.

Il fatto che in questo momento le aziende siano, giustament­e, focalizzat­e a garantire un accettabil­e livello di produttivi­tà, di liquidità o di servizio non fa altro che rendere il rischio ancora più forte, perché non si creano le condizioni per identifica­re il problema e tentare un’inversione di marcia.

Si sta creando dunque una classica situazione di “angolo cieco”, ben conosciuta dagli automobili­sti, in cui proprio le vetture più vicine – e dunque più pericolose in caso di cambio di corsia – non sono dentro l’angolo visuale dello specchiett­o retrovisor­e: se non vedo il pericolo, come posso evitarlo?

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