Che sia l’umano a governare gli algoritmi
Spesso l’innovazione ha deluso le attese e mostrato controindicazioni: oggi più che mai è cruciale che non siano altri a essere al comando delle trasformazioni tecniche e sociali
In un’intervista raccolta da Candida Morvillo, Edoardo Nesi, scrittore con un passato da imprenditore, manifesta la sua “nostalgia del progresso”, vale a dire il rammarico legato alla promessa ( in parte tradita) che « il futuro porti del bene » . È una sensazione diffusa, specie tra chi ha un approccio laico nei confronti delle tecnologie digitali. A questo disagio si accompagna un certo sospetto nei confronti di molte innovazioni. Nate come campo di ricerca e spazio di ribellione, finiscono spesso riconvertite in strumenti di repressione burocratica. Avrebbero dovuto semplificarci la vita, invece si sono spesso rivelate un asso nella manica quando si tratta di sorvegliare, misurare, egemonizzare, mercificare, punire. Si presentavano come uno spazio aperto alla concorrenza, sono diventate terreno di conquista per oligopolisti in cerca di rendite in nome del tecno- darwinismo. Giuravano di fare di noi dei novelli Prometeo, ci hanno consegnati alle mollezze di un terziario a scarso valore aggiunto e a bassa produttività ( e di un indotto ancor più minimale). Avrebbero dovuto ridurre le disparità e accorciare le distanze, hanno finito per alzare barriere e ingigantire le disuguaglianze.
L’anno eccezionale appena concluso ha fatto sì che molte contraddizioni esplodessero, lasciando emergere una cultura organizzativa, aziendale, ma anche politica, del tutto inadeguata quando si tratta di realizzare l’auspicio emancipativo sui cui l’industria digitale ha fondato il successo.
“Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano” ragiona di come robot, algoritmi e piattaforme possano rivelarsi strumenti fondamentali per la crescita di un Paese, la coesione tra geografie e generazioni, lo sviluppo di nuove competenze e il rilancio dei modelli produttivi. C’è da ammettere, tuttavia, che gli strumenti digitali che hanno invaso gli ambienti di lavoro saranno in grado di garantire buone opportunità solo se governati con consapevolezza, lucidità e responsabilità, senza scorciatoie e salvacondotti.
D’altra parte, al sentimento di insofferenza che la stampa internazionale ha definito techlash (“contraccolpo”) si accompagna il mutato atteggiamento del regolatore pubblico che non sembra incline a fare sconti ai padroni del silicio e minaccia di ricorrere a un’applicazione severa delle norme antitrust, mentre si sforza di approvare nuove regole per limitare gli abusi delle piattaforme ( si pensi al Gdpr o alle direttive in gestazione sul lavoro non- standard) e fare in modo che l’elusione non diventi una moda.
È vero che sedicenti disruptor stanno mettendo il tappo all’innovazione? Con Cambridge Analytica è venuto a galla un utilizzo spregiudicato dei dati degli utenti profilati per veicolare messaggi cuciti addosso al destinatario, spesso al fine di radicalizzare opinioni di per sé aggressive, col rischio di mandare in frantumi democrazie fragili. Non passa giorno che casi simili vengano alla luce, grazie all’azione di ispettorati, ricercatori e gole profonde. Il caso dei social media è solo l’ultimo ( tra i più incendiari, invero), ma il ruolo degli algoritmi è ormai decisivo in molti settori, specie nelle relazioni di lavoro. Manca tuttavia un esercizio di scrutinio collettivo.
Di recente, un’ordinanza del Tribunale di Bologna ha svelato il funzionamento dell’algoritmo usato da Deliveroo. Due criteri, affidabilità e partecipazione, definiscono il piazzamento del lavoratore nella classifica interna - il “ranking reputazionale” -, condizionando l’accesso ai turni. Al netto degli sviluppi, la vicenda conferma che la ventilata flessibilità che questi nuovi modelli di business avrebbero dovuto garantire ai lavoratori è pressoché nulla. Più che un miraggio, un abbaglio. Per due motivi: da un lato perché la scarsa trasparenza sui meccanismi “a punti” induce a un conformismo diffuso, dettato dal timore di restare penalizzati e di subire conseguenze negative. Dall’altro, le prove e i documenti citati nel provvedimento raccontano di un algoritmo “cieco” alle ragioni dei lavoratori vulnerabili, incapace di distinguere tra i motivi delle assenze ( scelta libera, doveri di cura, malattia, adesione a uno sciopero).
In un colpo solo cadono alcuni tra i miti più longevi degli ultrà del tech. Il modello ha infatti zero obiettività, non consente di migliorare le decisioni umane, include subdoli incentivi che spingono i lavoratori a dare il massimo nella spericolata maratona per assicurarsi entrate dignitose, comprime ogni margine di discrezionalità, in aperto contrasto con diritti costituzionali.
Cresce insomma il timore di aver delegato frammenti delicatissimi del privato, del mercato del lavoro e della democrazia a un gruppo spregiudicato di operatori, incapaci di assumersi le responsabilità derivanti da un ruolo così influente. Le istituzioni europee intendono evitare la deriva. Chiediamoci intanto come intervenire per mitigare i rischi di un sistema fallace e incline all’erosione delle tutele. Lavoriamo per goderci il futuro digitale in modo condiviso. Ora che si è conclusa la stagione dell’ingenuità, non ci sono scuse. Delle due l’una. O le innovazioni digitali servono ( anche) a cambiare il corso della storia, oppure tanto vale considerarle appendici delle debolezze umane, rinunciando una volta per tutte all’idolatria della novità. Per realizzare il primo obiettivo, è necessario che parti sociali, decisori pubblici e società tutta disegnino e attuino un modello che veda l’“umano” al comando delle trasformazioni tecniche e sociali.