Contro il dominio delle piattaforme
L’informatica oltre a portare notevoli benefici tecnologici, prometteva di favorire una maggiore libertà, uguaglianza e opportunità per tutti, eliminazione di intermediazioni e parassitismi, allargamento della partecipazione democratica, maggiore trasparenza e arricchimento culturale. Nell’ultimo decennio abbiamo tuttavia assistito a una deriva inaspettata, se oggi gli intermediari sono diventati potenti, concentrati in poche mani e in grado di condizionare individui e società. Shoshana Zuboff parla di Capitalismo di sorveglianza, che opera proponendo agli utenti uno scambio, non sempre consapevole, tra uso gratuito di servizi e consenso al tracciamento. I profili degli utenti vengono usati come merce venduta agli inserzionisti pubblicitari. Questo produce distorsioni: anziché suggerire i prodotti più adatti a un cliente, si cercano i clienti con maggiore potenzialità come acquirenti; l’obiettivo della piattaforma non è fornire il miglior servizio, ma trattenere più a lungo gli utenti; l’assuefazione nell’uso dei servizi; barriere all’ingresso di nuovi concorrenti che non possono offrire servizi gratis; disuguaglianze crescenti tra aziende, paesi e lavoratori. Le piattaforme si espandono con una rapidità esponenziale, che sorprende sempre la nostra mente. Finiscono per invadere l’intera sfera digitale. Gli intermediari tengono in ostaggio utenti e inserzionisti, incassando da questi una larga parte dei guadagni. L’espansione incontrollata consente di raggiungere dimensioni economiche e una concentrazione di potere mai viste nel passato. Ne abbiamo avuto un esempio clamoroso con la messa al bando di Donald Trump da parte di Twitter e Facebook, ma gli episodi sono tanti.
Finora le piattaforme godevano di una sorta di franchigia, che le esentava dalla responsabilità sui contenuti prodotti dagli utenti, ma la vicenda Trump mostra che invece se ne fanno carico. Si arrogano il diritto di giudicare costituendo una propria giustizia privata. Le clausole contrattuali sono però asimmetriche: gli utenti non possono esercitare una libera scelta, come sarebbe previsto dal Gdpr, poiché la rinuncia a un servizio talmente pervasivo li renderebbe dei reietti. Le piattaforme stesse diventano servizi, rivenduti come cloud computing. Tanto più vengono usate, tanto più aumenta la dipendenza dell’intera economia digitale da loro. Le Big Tech sfruttano poi falle nelle norme fiscali per eludere il pagamento delle tasse nei paesi dove operano.
Come possiamo uscirne, senza rinunciare ai benefici dell’innovazione digitale? Contare sull’autoregolamentazione è illusorio. Proporre soluzioni informatiche con protocolli aperti, come Solid di Tim BernersLee, per mantenere il controllo dei propri dati, è illusorio. Applicare norme antimonopolistiche nate cento anni fa ai giganti del capitalismo digitale è illusorio.
Per uscire dalla condizione di intossicazione occorre prima riconoscere di esserne affetti. Poi serve una cura drastica, che richiede di intervenire sui nostri processi mentali. La comprensione richiede di introdurre nuovi concetti nel nostro linguaggio, come è avvenuto con la definizione di net neutrality, da cui è scaturita la percezione di diritti violati. Potremmo parlare ad esempio di platform independence, di data portability, e così via.
La soluzione più efficace sarebbe quella di eliminare la base del fenomeno, vietando l’erogazione di servizi gratuiti compensati dalla pubblicità, tornando a una più sana relazione tra cliente e venditore, in cui si paga ciò che si usa. Oppure si promuovano servizi di comunità, come Wikipedia, che si sostiene con le donazioni e i contributi di migliaia di volontari.