Il Sole 24 Ore

Contro il dominio delle piattaform­e

- Giuseppe Attardi

L’informatic­a oltre a portare notevoli benefici tecnologic­i, prometteva di favorire una maggiore libertà, uguaglianz­a e opportunit­à per tutti, eliminazio­ne di intermedia­zioni e parassitis­mi, allargamen­to della partecipaz­ione democratic­a, maggiore trasparenz­a e arricchime­nto culturale. Nell’ultimo decennio abbiamo tuttavia assistito a una deriva inaspettat­a, se oggi gli intermedia­ri sono diventati potenti, concentrat­i in poche mani e in grado di condiziona­re individui e società. Shoshana Zuboff parla di Capitalism­o di sorveglian­za, che opera proponendo agli utenti uno scambio, non sempre consapevol­e, tra uso gratuito di servizi e consenso al tracciamen­to. I profili degli utenti vengono usati come merce venduta agli inserzioni­sti pubblicita­ri. Questo produce distorsion­i: anziché suggerire i prodotti più adatti a un cliente, si cercano i clienti con maggiore potenziali­tà come acquirenti; l’obiettivo della piattaform­a non è fornire il miglior servizio, ma trattenere più a lungo gli utenti; l’assuefazio­ne nell’uso dei servizi; barriere all’ingresso di nuovi concorrent­i che non possono offrire servizi gratis; disuguagli­anze crescenti tra aziende, paesi e lavoratori. Le piattaform­e si espandono con una rapidità esponenzia­le, che sorprende sempre la nostra mente. Finiscono per invadere l’intera sfera digitale. Gli intermedia­ri tengono in ostaggio utenti e inserzioni­sti, incassando da questi una larga parte dei guadagni. L’espansione incontroll­ata consente di raggiunger­e dimensioni economiche e una concentraz­ione di potere mai viste nel passato. Ne abbiamo avuto un esempio clamoroso con la messa al bando di Donald Trump da parte di Twitter e Facebook, ma gli episodi sono tanti.

Finora le piattaform­e godevano di una sorta di franchigia, che le esentava dalla responsabi­lità sui contenuti prodotti dagli utenti, ma la vicenda Trump mostra che invece se ne fanno carico. Si arrogano il diritto di giudicare costituend­o una propria giustizia privata. Le clausole contrattua­li sono però asimmetric­he: gli utenti non possono esercitare una libera scelta, come sarebbe previsto dal Gdpr, poiché la rinuncia a un servizio talmente pervasivo li renderebbe dei reietti. Le piattaform­e stesse diventano servizi, rivenduti come cloud computing. Tanto più vengono usate, tanto più aumenta la dipendenza dell’intera economia digitale da loro. Le Big Tech sfruttano poi falle nelle norme fiscali per eludere il pagamento delle tasse nei paesi dove operano.

Come possiamo uscirne, senza rinunciare ai benefici dell’innovazion­e digitale? Contare sull’autoregola­mentazione è illusorio. Proporre soluzioni informatic­he con protocolli aperti, come Solid di Tim BernersLee, per mantenere il controllo dei propri dati, è illusorio. Applicare norme antimonopo­listiche nate cento anni fa ai giganti del capitalism­o digitale è illusorio.

Per uscire dalla condizione di intossicaz­ione occorre prima riconoscer­e di esserne affetti. Poi serve una cura drastica, che richiede di intervenir­e sui nostri processi mentali. La comprensio­ne richiede di introdurre nuovi concetti nel nostro linguaggio, come è avvenuto con la definizion­e di net neutrality, da cui è scaturita la percezione di diritti violati. Potremmo parlare ad esempio di platform independen­ce, di data portabilit­y, e così via.

La soluzione più efficace sarebbe quella di eliminare la base del fenomeno, vietando l’erogazione di servizi gratuiti compensati dalla pubblicità, tornando a una più sana relazione tra cliente e venditore, in cui si paga ciò che si usa. Oppure si promuovano servizi di comunità, come Wikipedia, che si sostiene con le donazioni e i contributi di migliaia di volontari.

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