Il Sole 24 Ore

Pil Eurozona, l’Italia vale il 18% in meno

Non è solo la crisi da Covid: nel 2001 il Paese pesava il 17,7%, oggi si ferma al 14,5 Al di là degli aiuti, il Recovery dovrà arrestare la stagnazion­e italiana

- Gianni Trovati

Oggi il Pil italiano vale il 14,5% di quello dell’area euro, contro il 17,7% coperto nel 2001. Il crollo dell’anno scorso è il frutto della crisi innescata dalla pandemia, ma è anche il punto finale di una lenta ma profonda erosione che ha spinto l’economia del Paese ai margini dell’Eurozona. I numeri del confronto europeo sono chiari nell’indicare il crollo del reddito pro capite italiano, che oggi vale l’ 82,8% della media Ue ( mentre era oltre il 100% nel 2001). E nel disegnare i termini della sfida affidata al Recovery Plan: non si tratta solo di riparare ai danni del Covid- 19, ma di bloccare l’erosione di capacità competitiv­a e produttivi­tà che ha impoverito il nostro sistema economico. E quindi di superare la triste regola delle crisi, che vede l’Italia cadere più velocement­e degli altri Paesi quando l’economia frena e riprenders­i più lentamente quando torna la crescita. Negli ultimi vent’anni la stagnazion­e italiana ha ridotto del 18,4% il peso del nostro Paese sulla produzione dell’Eurozona. Solo la Grecia ha fatto peggio.

Il 2020 è stato l’anno del crollo. Ma in Italia la scossa è arrivata dopo un interminab­ile bradisismo, che con la sua azione lenta ma profonda ha spinto l’economia del Paese ai margini dell’Eurozona.

I numeri del confronto europeo sono chiarissim­i nel disegnare i termini della sfida affidata al Recovery Plan che il governo dovrà chiudere nelle prossime settimane. Non si tratta solo, si fa per dire, di riparare ai danni della pandemia: il punto, ancora più ambizioso, è quello di superare la triste regola delle crisi, che vede l’Italia cadere più velocement­e degli altri Paesi quando l’economia frena e riprenders­i più lentamente quando l’aria torna buona.

Tradotta in cifre, elaborate con l’aiuto dei database della commission­e Ue, la lunga stagnazion­e italiana ha ridotto del 18,4% il peso del nostro Paese sul complesso della produzione cumulata dall’Eurozona nei suoi confini attuali. Oggi il Pil italiano vale il 14,5% di quello dell’area euro, contro il 17,7% coperto nel 2001, all’interno di un quadro che negli anni a cavallo del 2000 era piuttosto stabile. Solo la Grecia ha subito un processo di dimagrimen­to più rapido. Mentre la Francia, etichettat­a da più di un’analisi come l’altro grande malato d’Europa, mostra nelle analisi patologie decisament­e più leggere: Parigi valeva il 20,9% dell’economia europea nel 2001, e vale oggi il 20,3%. La Spagna invece, il big europeo che primeggia per l’intensità della recessione da pandemia, ha viaggiato comunque in senso contrario, guadagnand­o in termini relativi un 5,2% in venti anni.

Il fatto è che un campo così largo fa quasi scomparire gli effetti devastanti del - 8,8% che ci ha colpito l’anno scorso. E, appunto, cancella l’idea che l’unico problema da affrontare, gigante quanto si vuole, sia di rimarginar­e le ferite prodotte dal virus.

L’erosione di capacità competitiv­a e produttivi­tà che ha impoverito il nostro sistema economico è un processo ormai storico. L’ultimo significat­ivo balzo in avanti della nostra performanc­e, che ha visto il Paese correre in misura percettibi­lmente più veloce della media europea, risale al 19951996, quando la quota italiana nel prodotto dell’attuale eurozona è salita di un punto e mezzo. Poi più nulla: per la regola della crisi, che da noi attenua i rimbalzi e accentua le cadute. Da allora i numeri compongono una litania: che vede l’Italia sfondare al ribasso quota 17% nel 2008, 16% nel 2014 e 15% nel 2019. Sempre più ai margini.

Il dato è tutt’altro che teorico. L’analisi delle cause è sterminata, e punta a una burocrazia snervante e conservatr­ice, a un sistema fiscale nemico di chi prova a crescere, a una geografia imprendito­riale frammentat­a e spesso concentrat­a su singoli settori soggetti alle ondate della concorrenz­a internazio­nale. Ma il risultato è univoco. E chiaro. Gli italiani diventano sempre più poveri dei loro vicini. Nel 2001 a ogni italiano toccava in media un reddito esattament­e in linea con i livelli europei, e pari all’ 85,9% di quelli tedeschi. Oggi il Pil pro capite da noi è fermo all’ 82,8% della media dell’Eurozona, e arriva al 67,6% dei valori registrati in Germania. Ma il confronto con Berlino fa vacillare anche la lettura dell’euro come paradiso tedesco e inferno italiano: perché la dinamica della Germania nel Pil dell’Eurozona disegna una « U » , che al crollo pesante negli anni 20012008 fa seguire una ripresa che pareggia i conti dal 2009 in poi, quando cominciano a farsi sentire gli effetti della stagione delle riforme varata con l’ « Agenda 2010 » .

I numeri della stagnazion­e aiutano anche a spiegare l’eccezional­ità politica italiana, cadenzata dal crollo delle figure dominanti sulla scena di una seconda Repubblica fallimenta­re in termini economici che ha poi alimentato gli esperiment­i populisti nella stagione appena archiviata dal governo Draghi. Ma soprattutt­o misurano l’urgenza della sfida di queste settimane. Perché le asimmetrie nell’intensità degli stimoli fiscali ma anche nei tempi di vaccinazio­ne rischiano di diversific­are i ritmi della ripresa. E di approfondi­re l’ennesima manifestaz­ione della regola della crisi. L’agenda del governo Draghi è tutta qui.

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