L’UNIONE TRA SACRO E PROFANO CHE CREÒ IL DESIGN MADE IN ITALY
La storia del made in Italy è un prezioso documentario: prezioso perché tutto ciò che merita la registrazione del segno lasciato nel tempo lo è; documentario, perché fatto, prima di tutto, dalle voci e personalità degli uomini che hanno inventato questa impresa. L’inchiesta giornalistica è pertanto un registro narrativo che si presta perfettamente alla testimonianza di questa storia a più voci, dove il confronto delle diverse esperienze fa emergere molti punti di assonanza.
L’intervista ai protagonisti era stata, infatti, il medium di un bellissimo volume di qualche anno fa, « La Fabbrica del Design » , in cui Giulio Castelli, Paola Antonelli e Francesca Picchi raccoglievano la storia degli imprenditori delle aziende italiane. E il racconto che leggerete ricorda molto questa impostazione. Si può infatti seguire il dipanarsi di queste vicende anche senza vederne i prodotti: rispetto a una storia del design, dove gli oggetti sono imprescindibili e diventano la punta dell’iceberg del processo della produzione, quella del made in Italy parla davvero attraverso la vita degli uomini, coinvolgendo storia del costume sociale, dei sistemi economici, anche con punte di colore tutte emotive e psicologiche.
Dicevamo degli argomenti in comune che affiorano da questi singoli racconti. Innanzitutto quello della contaminazione tra campi disciplinari e della condivisione dei saperi. Nel 1997, in un celebre saggio, Eric Steven Raymond parlava della contrapposizione di due modelli di gestione delle conoscenze: la cattedrale, basata su un sistema verticale in cui solo i vertici detengono il pieno potere del sapere, e il bazaar, quello fondato sulla piena condivisione e sulla massima apertura e trasparenza, come avviene per esempio in rete con Wikipedia. Bene, in Italia penso che abbiamo sempre avuto e operato attraverso un terzo modello che è quello della piazza. Nella piazza hanno sempre convissuto il sacro ( la cattedrale) e il profano ( il mercato, il ba
zaar); nei bar, nelle trattorie, durante le pause i lavoratori si sono sempre incontrati e hanno messo in piazza le loro esperienze. In un sistema condiviso e trasversale, dove i ruoli sono definiti e chiari, aiutare il conoscente a risolvere un problema operativo diventa una sfida, una risorsa per la comunità intera, non un vantaggio consegnato all’avversario nella lotta alla sopravvivenza nella competizione.
Ecco, in questa piazza del design il racconto degli imprenditori ci riporta a un periodo in cui le singole imprese insistevano su un distretto produttivo inscindibile dal territorio di appartenenza. È innegabile l’insorgere di una certa nostalgia nel racconto di chi ha vissuto la grande esperienza rifondativa del Dopoguerra. Un periodo di crescita felice e di soddisfazione nel quale tanti ingegneri aeronautici hanno messo a disposizione del design domestico le loro competenze, perché la guerra era finita e la casa non era più sinonimo di rifugio, ma di vita. Così come l’arruolamento nel design di tanti artisti sconfinati nel progetto della funzione, o di moltissimi uomini di ingegno e poca accademia ( alcuni con titoli che non superavano la quinta elementare). Ne emerge una storia d’intuizioni geniali, giunte come forze trainanti che non ascoltavano alcun rifiuto, perseguite a volte fino alla sconsideratezza, ma con il lieto fine a consuntivo.
Forze propulsive che realizzano non solo prodotti, ma anche straordinarie macchine per produrli, esse stesse progetti di design totalmente rappresentative del genio italiano: macchine che misurano l’intensità della luce, il rumore delle cose nel vuoto pneumatico, la tenuta dei materiali all’usura del tempo. Un altro dato che accomuna molte di queste esperienze imprenditoriali è quello del coinvolgimento dell’artigianato dentro l’industria, vero e proprio atto costitutivo del made in Italy, la cui geniale intuizione va, sopra ogni altro, riconosciuta a Gio Ponti, deus ex ma
china e inventore, per così dire, della figura dell’art director in tante industrie italiane. Ponti, infatti, capisce e soprattutto fa capire che l’artigianato è il patrimonio del saper fare tricolore e non va trattato come un’esperienza primordiale da superare in un’ottica evoluzionistica, ma come valore aggiunto da iniettare e far convivere con la serializzazione industriale.
Terzo elemento comune è lo spazio del lavoro per l’uomo, la Comunità, per usare una definizione di colui che più di ogni altro aveva compreso il ruolo sociale della fabbrica e la sua etica politica, Adriano Olivetti. La fabbrica è fatta sì dagli uomini, ma deve essere anche lo spazio della dignità architettonica: non quindi capannoni scatolari, né landmark che segnano il territorio tanto per far parlar di sé e della griffe di chi li disegna, bensì edifici pensati per far lavorare bene le persone. C’è una grande tradizione di architetture per la produzione industriale nel patrimonio italiano, infatti, la cui storia meriterebbe di essere raccontata con un’attenzione dedicata.
Ultimo tratto ricorrente in queste testimonianze, raccolte con una personale gioia della narrazione che più volte traspare nello storytelling di Giovanna Mancini, è il problema dell’eredità, del testimone da passare alla seconda e, in alcuni casi, alla terza generazione. Una questione spinosa che nasce non tanto, o per lo meno non solo, dai caratteri personali degli eredi, spesso così diversi da quelli dei loro predecessori/ fondatori, quanto dalle mutate condizioni sociali e politiche. Il mondo dell’imprenditoria visionaria degli esordi del made in Italy è unico e irripetibile, un microclima socio- culturale benedetto dalle circostanze. Il mondo, allora pensato in espansione incondizionata, oggi fa i conti con un effetto domino i cui risvolti più deleteri richiedono un’inversione di rotta. La storia che ci precede, ci aiuta: inventare un proprio modello senza imitarne di precedenti o limitrofi e imparare dalla piazza. Anzi, comprendere che la nostra piazza si è espansa ed è diventata il nostro pianeta e viceversa.