Il ritorno della Lega Anseatica: no al protezionismo in Europa
La Svezia guida i Paesi orientati all’export e decisi a difendere il libero scambio Nel mirino la Francia e le chiusure dei mercati accentuate dalla pandemia
Nell’Unione europea, orfana del Regno Unito e messa a dura prova prima dai dazi trumpiani dell’” America First” e ora dal coronavirus, più che uno spettro è tornata ad aggirarsi una vecchia tentazione: quella del protezionismo. E, per combatterla, l’anima liberista del Vecchio Continente, quel Nord Europa che già fu il fulcro della Lega Anseatica medioevo- rinascimentale, torna a rispolverare antiche alleanze.
Capofila del gruppo è la Svezia, che già il 18 febbraio del 2020, su iniziativa della ministra del Commercio Anna Hallberg, invitò a Stoccolma i ministri di altri 5 Paesi di orientamento simile: Olanda, Danimarca, Finlandia, Repubblica Ceca e Germania, per far fronte comune contro le nuove tendenze e colmare il vuoto lasciato da un campione del liberismo come la Gran Bretagna. Era la vigilia dell’esplosione della pandemia di Covid- 19, che ha inevitabilmente accentuato le tendenze protezionistiche. Così, a un anno di distanza, la ministra Hallberg, in un’intervista a Bloomberg, è tornata a far sentire la voce di questi Paesi - ai quali nel frattempo si sono aggiunti Irlanda ed Estonia – decisi a spingere per « un commercio aperto, libero ed equo » contro quanti « cercano di proteggere industrie che non fanno i compiti » .
A essere preoccupato è prima di tutto il mondo del business svedese. « Durante la pandemia – conferma Lena Sellgren, chief economist di Business Sweden, l’agenzia per la promozione del commercio e gli investimenti – abbiamo visto più protezionismo: restrizioni all’export, aiuti di Stato. E penso che ci sia il rischio che alcune di queste misure, o quantomeno un atteggiamento in qualche misura protezionistico, rimangano anche dopo, tanto più che, già prima del virus, si assisteva a una maggiore regionalizzazione della produzione e del commercio in Europa, Nord America e Asia, con le imprese più grandi che preferiscono stare più vicine ai mercati » di riferimento.
Per Stoccolma però la chiusura dei mercati è una sorta di anatema. « Le economie come quella svedese o quelle nordiche – continua Sellgren – dipendono dall’accesso ai mercati più grandi, perché quelli interni sono troppo piccoli. È perciò importante avere un commercio più aperto e libero possibile. Tanto più che abbiamo molte piccole e medie imprese, a cui le barriere tariffarie e non tariffarie costano molto e per le quali, d’altra parte, produrre in regioni diverse avrebbe costi elevati » .
La comune vocazione all’export è del resto il primo motore dell’alleanza liberista. Basta guardare il peso delle esportazioni sul Pil degli 8 Paesi mobilitati contro il protezionismo ( si veda il grafico in pagina): dal 40,2% della Finlandia al 126,8% dell’Irlanda ( dato, quest’ultimo, inevitabilmente influenzato dalla presenza massiccia di multinazionali), passando per il 47% svedese e l’ 83,3% olandese. In ogni caso percentuali superiori al dato mondiale ( 30,5%).
Jan Björklund, ambasciatore svedese in Italia, riconosce il ruolo di promotrice della Svezia, ma invita a non accentuare troppo la contrapposizione tra blocchi: « L’idea centrale dell’Unione europea è discutere insieme invece di combattere su campi di battaglia, ma questo non significa che siamo sempre d’accordo: abbiamo semplicemente trovato dei meccanismi per gestire posizioni diverse. Naturalmente, quando bisogna votare, si devono trovare delle maggioranze e ovviamente noi ci confrontiamo con i Paesi che hanno la nostra stessa visione. La Svezia è una delle nazioni guida che sostengono globalizzazione e libero scambio ( grazie ai quali in Europa abbiamo i più alti standard di vita mai raggiunti), ma non siamo soli; d’altra parte, nessun Paese sostiene apertamente che il protezionismo è una cosa buona, anche se alla fine alcune delle misure che adotta vanno in quella direzione » .
In quest’Europa a geometrie variabili, che forma alleanze finalizzate a specifici obiettivi ( come già era accaduto per la cosiddetta Nuova lega anseatica tre anni fa, quando un gruppo di Paesi in larga parte coincidenti con gli otto di oggi si oppose a una riforma dell’Eurozona troppo ambiziosa), il convitato di pietra è ancora una volta la Francia di Emmanuel Macron. Una Francia che, complice anche l’emergenza pandemica, ha accentuato la sua tradizionale spinta alla difesa di campioni nazionali ( o europei) e a politiche più dirigiste, anche in nome dell’” autonomia strategica” dell’Europa. Ultimo esempio lo stop al takeover di Carrefour da parte del gruppo canadese Couche- Tard, in virtù dei nuovi poteri di blocco assunti dallo Stato francese in materia di acquisizioni ritenute strategiche, tra cui appunto la filiera agro- alimentare.
Contrappeso fondamentale è invece la Germania, la cui presenza tra le file dei liberisti può giocare un ruolo decisivo nel momento in cui, dopo aver aggiornato la sua politica commerciale, la Ue si appresta ad aggiornare anche la strategia industriale.
« Quando Germania e Francia hanno la stessa visione su una questione – nota ancora l’ambasciatore – si va spesso in quella direzione. Ora che si si parla di ” autonomia strategica” – una nuova espressione che è una sorta di scusa per più protezionismo – le posizioni sono diverse; ma sono ottimista: troveremo un compromesso. Tuttavia – conclude – non è così chiaro che ci sono otto Paesi in favore del libero scambio e gli altri contrari: nella discussione ci sono molte sfumature » .
Ma arroccandosi nella difesa del libero mercato l’Europa non corre il rischio di soccombere al protezionismo altrui o a una concorrenza sleale, come quella cinese? Per Jan Björklund « la difesa della concorrenza leale è da sempre la motivazione per regolamentare il libero scambio. Il commercio dovrebbe essere equo e sostenibile, ma – salvo eccezioni limitate stabilite da organismi sovranazionali, come l’Onu, o settori con importanti risvolti di sicurezza, come le telecomunicazioni – dovremmo essere molto cauti nel bloccarlo » . Lena Sellgren riconosce la necessità di trovare un difficile equilibrio tra le due esigenze, ma invita piuttosto l’Europa a « rafforzare la propria competitività: istruzione e competenze, infrastrutture, progresso nella digitalizzazione, transizione verde. Questo – conclude – è il problema, non solo per la Svezia ma per tutta l’Europa » .