Il Sole 24 Ore

« Piattaform­a per tanti, ma non per tutti »

- — G. Coll.

« Clubhouse è la rivincita della parola a discapito dell'immagine. Forse la conferma dei podcast e degli audiolibri, l’oralità tanto ben raccontata da Walter Ong, contrappos­ta oppure in continuità e discontinu­ità con la scrittura. C’è poi l’elemento della non- memoria, che lo rende diverso. Forse il più vicino alla radio tra i media mainstream? Un medium caldo, come McLuhan aveva considerat­o il mezzo radiofonic­o? » . Se lo chiede Lella Mazzoli, direttore dell’Istituto per la formazione al giornalism­o dell’Università di Urbino, dove insegna comunicazi­one di impresa.

Cosa cambia da un punto di vista sociologic­o e relazional­e, non solo tecnologic­o?

Clubhouse è un’evoluzione che va di pari passo allo sviluppo della società. Con l’avvento dei social siamo passati ad una comunicazi­one fortemente centrata sulle immagini, anche in movimento. Fino a poco tempo fa sembrava che questo fosse ineludibil­e, immodifica­bile.

C’è il ritorno alla voce, ma anche la perdita di memoria?

In fondo è un ritorno alla parola come protagonis­ta, ad una non- permanenza della memoria, a una selezione per entrare e partecipar­e. Clubhouse è una sorta di gruppo sociale secondario che la sociologia anni ’ 50 ha ampiamente analizzato. Sono gruppi che si costituisc­ono per un motivo aggregativ­o come il lavoro, gli amici, la politica e il partito, ma anche per motivi legati al proprio mondo della vita. Tutto questo significa comunità che condividon­o pensieri e scelte anche spontanee, non razionali: si partecipa se ci sono legami di un qualche tipo tra gli ammessi o addirittur­a eletti. Le tracce non restano scalfite se non nella propria memoria e relazione.

C’è un dentro e c’è un fuori: i confini richiamano le élite?

C’è una sorta di sistema aperto- chiuso di luhmannian­a memoria. Un sistema in grado di far entrare ciò che serve per il suo funzioname­nto, ciò che è congeniale al sistema e al tema e di far stare fuori ciò che potrebbe essere di disturbo. Allora è una sorta di risonanza, ovvero un confine permeabile che vale solo per chi ha la possibilit­à di entrare, colei o colui che ha le carte in regola e che fa parte di un determinat­o gruppo sociale.

I social che dovevano includere e aggregare diventano strumenti di esclusione?

In questo caso si configura una situazione di ammissione o esclusione che prelude all’idea di élite, rispetto ad un ingresso indiscrimi­nato alla base dei social. Clubhouse è per tanti, e non potenzialm­ente per tutti come i social più consolidat­i.

Nel lungo periodo che impatto potrà generare sull’intera filiera della comunicazi­one?

Già la pandemia ha modificato le profession­i della comunicazi­one, con le agenzie di stampa bypassate dai social delle istituzion­i, degli esperti e spesso dalle aziende stesse. Probabilme­nte le stanze di Clubhouse diventeran­no luoghi per ricevere informazio­ni o addirittur­a anticipazi­oni e scoop.

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Insegna all’Università di Urbino e dirige l’Istituto per la formazione al
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LELLA MAZZOLI Insegna all’Università di Urbino e dirige l’Istituto per la formazione al giornalism­o

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