Per una città più vivibile la tecnologia non basterà
L’invecchiamento della popolazione può essere una opportunità. Purché il digitale non sia fine a se stesso ma venga orientato
Nei prossimi trent'anni la popolazione anziana raddoppierà e nel 2050 la silver economy varrà circa il 30% del totale. La fotografia Istat a gennaio 2019 vede in Italia 13,8 milioni over 65 anni ( 22,8% della popolazione italiana), di cui 2,2 milioni ( 3,6%) over 85; ciò equivale a 173 anziani ( 65+) ogni 100 giovani ( 014) – nel 1951 erano 31. Il benessere degli anziani e città più confortevoli per tutti saranno dunque una delle priorità dell'agenda pubblica che dovrà prevedere politiche strutturali che incoraggino un invecchiamento attivo e un ambiente urbano age-friendly. Le città sono pronte ad accogliere questa sfida? La dimensione silver è parte dei criteri per rendere le nostre città più smart e vivibili?
In un convegno organizzato da Confcommercio a Genova poco prima del lockdown e diventato da poco libro per i tipi di Egea ( A. Granelli ( a cura di), « Silver & the City. Terza età e città, motori del terziario innovativo » ) si era posta la questione dello sviluppo delle città riletto anche con la lente della silver economy, vista non tanto come un vincolo, come un problema da risolvere, ma piuttosto come occasione e metodo progettuale. Riprendendo il ragionamento di Carlo Sangalli fatto in quell'evento, « non è detto che l'invecchiamento anagrafico della popolazione si debba tradurre in un invecchiamento della società e dell'economia. Al contrario, rappresenta per la nostra economia una sfida sociale e un'opportunità » . Infatti una città a misura di anziano è una città più vivibile per tutti; il suo essere accogliente deve anche facilitare il dialogo generazionale e non ghettizzare i due estremi della curva demografica. Ciò non è solo un imperativo sociale ma è anche una grande occasione economica. L'opportunità è infatti di costruire « un patto generazionale » per cui le nuove generazioni possono trovare nella silver economy occasioni di crescita, di occupazione, di impresa, persino di creatività. La sfida delle città del futuro sarà quindi quella non solo di essere smart ( iper- tecnologizzate) ma anche a misura di uomo e donna e soprattutto pensate per tutte le fasi della loro vita.
Ma è sufficiente riempire le città di infrastrutture digitali, connettività e dati? È sufficiente formare truppe di progettisti con digital skills certificate? Purtroppo no. La sfida infatti non è solo tecnologica: certo il digitale, i dati, i nano materiali, le innovazioni energetiche sono tasselli fondamentali, ma sono sempre strumenti, sono mezzi, non fini. E il rischio – che gli esperti chiamano perversione – è di confondere, di sostituire il fine con i mezzi. Ci ricorda Zygmunt Bauman che « nel nostro tempo postmoderno, i mezzi sono gli unici strumenti di potere rimasti dal campo oramai abbandonato dai fini. Liberati dai vincoli dei compiti autoritariamente stabiliti, possono ora crescere all'infinito » .
La priorità – prima della diffusione a macchia d'olio di soluzioni digitali e infrastrutture – dovrà essere la crescita della cultura digitale nel senso più ampio: senza tecnologie e infrastrutture non si può far nulla, ma una connettività “normale” e applicazioni già in commercio da molto tempo sono sufficienti per moltissime applicazioni vitali. Non servono gli effetti “wow”, non serve l'ultima novità di grido. La tecnologia va dominata, orientata, talvolta frenata e sicuramente adattata alle specificità dell'essere umano in modo da per potenziarlo senza snaturarlo. Per questo le soft skills e le arti liberali – arti libere da ogni condizionamento e orientamento professionale in quanto fondative della natura umana – sono sempre più importanti e devono far parte del bagaglio di decisori e progettisti.
Va dunque contrastata la fiducia cieca nell'innovazione tecnologia a qualsiasi costo. Negli ultimi anni stanno infatti emergendo con sempre maggiore evidenza i costi ( spesso nascosti) dell'innovazione – i lati oscuri del digitale. La casistica è ampia e in crescita: si va dalla crisi di attenzione e produttività legata all'uso continuativo del digitale e rinforzata dal diluvio delle email ai consumi energetici stratosferici del sistema blockchain e, più in generale, la carbon footprint del digitale; dai problemi cognitivi creati dai motori di ricerca alla pandemia delle fake news; dalla sempre minore trasparenza degli algoritmi Ai- based, dai sempre più complessi impatti occupazionali alla deflagrazione della cyber- security .
Bisogna allora puntare con maggiore forza ed efficacia su un'autentica al digitale – non solo formazione e addestramento all'uso di procedure e strumenti ma anche pensiero critico applicato al digitale e supporto sul campo per facilitare la trasformazione digitale monitorandone le tipologie di impatto, anche quelle più soft – spesso meno appariscenti ma più problematiche. Ma una sana cultura digitale e progettuale non si sviluppa con l’elearning e con Ted: serve la co- progettazione, serve la mentorship, serve che i formatori di piattaforme e soluzioni non conoscano solo il digitale, ma anche il business, le complessità comunicative legate all'innovazione, le barriere psicologiche che ogni cambiamento profondo induce.
Sono dunque proprio le soft skills le competenze più importanti e più carenti oggi, soprattutto nell'ambito del digitale. Senza di esse si rimane schiacciati sull'alfabetizzazione digitale – utile per formare utenti ma non decisori.
‘ Le soft skill e le arti liberali devono far parte delle competenze e del bagaglio culturale di decisori e progettisti