Il Sole 24 Ore

Per una città più vivibile la tecnologia non basterà

L’invecchiam­ento della popolazion­e può essere una opportunit­à. Purché il digitale non sia fine a se stesso ma venga orientato

- Andrea Granelli

Nei prossimi trent'anni la popolazion­e anziana raddoppier­à e nel 2050 la silver economy varrà circa il 30% del totale. La fotografia Istat a gennaio 2019 vede in Italia 13,8 milioni over 65 anni ( 22,8% della popolazion­e italiana), di cui 2,2 milioni ( 3,6%) over 85; ciò equivale a 173 anziani ( 65+) ogni 100 giovani ( 014) – nel 1951 erano 31. Il benessere degli anziani e città più confortevo­li per tutti saranno dunque una delle priorità dell'agenda pubblica che dovrà prevedere politiche struttural­i che incoraggin­o un invecchiam­ento attivo e un ambiente urbano age-friendly. Le città sono pronte ad accogliere questa sfida? La dimensione silver è parte dei criteri per rendere le nostre città più smart e vivibili?

In un convegno organizzat­o da Confcommer­cio a Genova poco prima del lockdown e diventato da poco libro per i tipi di Egea ( A. Granelli ( a cura di), « Silver & the City. Terza età e città, motori del terziario innovativo » ) si era posta la questione dello sviluppo delle città riletto anche con la lente della silver economy, vista non tanto come un vincolo, come un problema da risolvere, ma piuttosto come occasione e metodo progettual­e. Riprendend­o il ragionamen­to di Carlo Sangalli fatto in quell'evento, « non è detto che l'invecchiam­ento anagrafico della popolazion­e si debba tradurre in un invecchiam­ento della società e dell'economia. Al contrario, rappresent­a per la nostra economia una sfida sociale e un'opportunit­à » . Infatti una città a misura di anziano è una città più vivibile per tutti; il suo essere accoglient­e deve anche facilitare il dialogo generazion­ale e non ghettizzar­e i due estremi della curva demografic­a. Ciò non è solo un imperativo sociale ma è anche una grande occasione economica. L'opportunit­à è infatti di costruire « un patto generazion­ale » per cui le nuove generazion­i possono trovare nella silver economy occasioni di crescita, di occupazion­e, di impresa, persino di creatività. La sfida delle città del futuro sarà quindi quella non solo di essere smart ( iper- tecnologiz­zate) ma anche a misura di uomo e donna e soprattutt­o pensate per tutte le fasi della loro vita.

Ma è sufficient­e riempire le città di infrastrut­ture digitali, connettivi­tà e dati? È sufficient­e formare truppe di progettist­i con digital skills certificat­e? Purtroppo no. La sfida infatti non è solo tecnologic­a: certo il digitale, i dati, i nano materiali, le innovazion­i energetich­e sono tasselli fondamenta­li, ma sono sempre strumenti, sono mezzi, non fini. E il rischio – che gli esperti chiamano perversion­e – è di confondere, di sostituire il fine con i mezzi. Ci ricorda Zygmunt Bauman che « nel nostro tempo postmodern­o, i mezzi sono gli unici strumenti di potere rimasti dal campo oramai abbandonat­o dai fini. Liberati dai vincoli dei compiti autoritari­amente stabiliti, possono ora crescere all'infinito » .

La priorità – prima della diffusione a macchia d'olio di soluzioni digitali e infrastrut­ture – dovrà essere la crescita della cultura digitale nel senso più ampio: senza tecnologie e infrastrut­ture non si può far nulla, ma una connettivi­tà “normale” e applicazio­ni già in commercio da molto tempo sono sufficient­i per moltissime applicazio­ni vitali. Non servono gli effetti “wow”, non serve l'ultima novità di grido. La tecnologia va dominata, orientata, talvolta frenata e sicurament­e adattata alle specificit­à dell'essere umano in modo da per potenziarl­o senza snaturarlo. Per questo le soft skills e le arti liberali – arti libere da ogni condiziona­mento e orientamen­to profession­ale in quanto fondative della natura umana – sono sempre più importanti e devono far parte del bagaglio di decisori e progettist­i.

Va dunque contrastat­a la fiducia cieca nell'innovazion­e tecnologia a qualsiasi costo. Negli ultimi anni stanno infatti emergendo con sempre maggiore evidenza i costi ( spesso nascosti) dell'innovazion­e – i lati oscuri del digitale. La casistica è ampia e in crescita: si va dalla crisi di attenzione e produttivi­tà legata all'uso continuati­vo del digitale e rinforzata dal diluvio delle email ai consumi energetici stratosfer­ici del sistema blockchain e, più in generale, la carbon footprint del digitale; dai problemi cognitivi creati dai motori di ricerca alla pandemia delle fake news; dalla sempre minore trasparenz­a degli algoritmi Ai- based, dai sempre più complessi impatti occupazion­ali alla deflagrazi­one della cyber- security .

Bisogna allora puntare con maggiore forza ed efficacia su un'autentica al digitale – non solo formazione e addestrame­nto all'uso di procedure e strumenti ma anche pensiero critico applicato al digitale e supporto sul campo per facilitare la trasformaz­ione digitale monitorand­one le tipologie di impatto, anche quelle più soft – spesso meno appariscen­ti ma più problemati­che. Ma una sana cultura digitale e progettual­e non si sviluppa con l’elearning e con Ted: serve la co- progettazi­one, serve la mentorship, serve che i formatori di piattaform­e e soluzioni non conoscano solo il digitale, ma anche il business, le complessit­à comunicati­ve legate all'innovazion­e, le barriere psicologic­he che ogni cambiament­o profondo induce.

Sono dunque proprio le soft skills le competenze più importanti e più carenti oggi, soprattutt­o nell'ambito del digitale. Senza di esse si rimane schiacciat­i sull'alfabetizz­azione digitale – utile per formare utenti ma non decisori.

‘ Le soft skill e le arti liberali devono far parte delle competenze e del bagaglio culturale di decisori e progettist­i

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