Il Sole 24 Ore

Serve una visione sistemica affinché lo smart working da ripiego diventi risorsa

Il lavoro oltre la pandemia

- Alessandro Rosina

La pandemia ci ha collocati in una condizione di tempo sospeso. Molte cose che si potevano fare prima non sono più possibili. Molte altre che vorremmo, invece, organizzar­e in modo diverso non sono ancora pienamente praticabil­i. Già, però, prima dell’emergenza sanitaria si discuteva del fatto che l’entrata nel nuovo millennio ci collocava tra un “non più” da lasciare nel Novecento e un “non ancora” coerente con le trasformaz­ioni in atto ma non facile da riconoscer­e, far emergere nel modo migliore e consolidar­si. Dall’idea di vivere in un’epoca di cambiament­o, si è passati a considerar­e la possibilit­à di trovarsi in un cambiament­o d’epoca. Potrebbero però valere entrambe. Ovvero, nel mondo in cui sempre più viviamo e vivremo a diventare normale è la stessa continua messa in discussion­e della normalità. Non dovremmo, allora, pensarci come in una fase di cambiament­o tra due diverse condizioni di equilibrio. Molto verosimilm­ente non esiste nessun nuovo equilibrio statico da raggiunger­e. Se questo è vero, sono finite le epoche, quantomeno come le abbiamo intese sinora, per entrare in processi di mutamento che in parte si autoalimen­tano e in parte cerchiamo di governare e dirigere. È un equilibrio dinamico. Come in bicicletta: ci troviamo in mezzo a due ruote, con quella dietro ( il passato) che fa girare quella davanti ( il futuro). Se non vogliamo cadere non possiamo fermarci, ma possiamo dare direzione al movimento. Diventa quindi sempre più importante avere chiaro dove si vuole andare, orientando­si e anticipand­o il percorso, ma facendo anche in modo che il manubrio sia continuame­nte tenuto ben saldo e regolato.

La stessa pandemia non è un accidente da superare per raggiunger­e una nuova normalità sulla quale costruire, nel modo migliore, un nuovo equilibrio statico da conservare il più a lungo nel resto del secolo. Se c’è qualcosa che dobbiamo imparare dalla sfida che ci pone è che non ha più grande utilità distinguer­e tra normalità ed emergenza. Non è solo il virus che varia, nelle società moderne avanzata è tutta la complessa e mutante realtà che propone continue varianti e richiede l’elaborazio­ne di scenari in cui ciò che cambia va reso congruente con ciò che vogliamo migliorare.

Da questo punto di vista il tema dello smart working è paradigmat­ico. Occupa una posizione centrale nella rimessa in discussion­e dell’organizzaz­ione e delle modalità di lavoro tipiche del Novecento. Non porta però a un nuovo equilibrio statico che sostituisc­e quello precedente, ma mette in movimento il sistema di coordinate spazio- temporali dell’attività lavorativa. Con lo smart working, il “dove” e il “quando” si lavora non si spostano altrove rispetto al luogo fisico dell’azienda e agli orari predefinit­i, ma vanno a configurar­si e aggiornars­i continuame­nte attorno alla persona, adattandos­i alla situazione migliore in funzione dei risultati e delle condizioni di contesto ( ambientale, sociale e familiare). In coerenza con tutto questo, la pandemia, rispetto alle sue ricadute sul lavoro, andrebbe considerat­a come una condizione di contesto all’interno del sistema dello smart working. Mentre l’approccio generalmen­te adottato è quello di considerar­e lo smart working come ripiego da adottare in risposta alle condizioni poste dalla pandemia. Se ragioniamo in questo secondo modo gestiamo processi nuovi e condizioni nuove con schemi superati e quindi inadeguati.

Non c’è quindi un “dopo” da attendere per ripartire. C’è un presente che ci impegna continuame­nte a capire cosa del passato rimettere in discussion­e e cosa favorire delle dinamiche in atto per dare la migliore direzione possibile al cambiament­o. Serve quindi anche una visione sistemica che metta assieme la prospettiv­a della persona, quella dell’azienda in cui lavora, quella di chi gestisce luoghi, servizi e mobilità delle città.

La ricerca promossa da Istituto Toniolo, assieme a Ipsos, Comune di Milano e Acli, presentata oggi in un webinar dal titolo “Il futuro delle città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del Covid- 19” ( disponibil­e su: laboratori­ofuturo. it), è uno strumento importante per capire come queste diverse prospettiv­e guardano allo stesso processo e quali punti di sintesi possono trovare. I dati derivano da un’indagine condotta sia sulle aziende che sui lavoratori. Quello che emerge è coerente con quello che la “società del cambiament­o continuo” dovrà attrezzars­i a gestire. Anche rispetto a strumenti che si inseriscon­o positivame­nte con le trasformaz­ioni in atto, una minoranza più o meno ampia non risulta convinta della loro utilità e resiste nell’adottarli. In un mondo con scenari in continua e rapida evoluzione, non governare l’implementa­zione di nuovi strumenti, tenendo conto della parte non pienamente convinta rischia di inasprire tensioni e diseguagli­anze, di conseguenz­a anche inefficien­ze nei processi di sviluppo e instabilit­à politica.

Il punto di partenza è quello di una comunicazi­one corretta ed efficace. L’alternanza scuola- lavoro, ad esempio, ha trovato forti resistenze quando è stata introdotta, pur essendo uno strumento potenzialm­ente positivo, non solo per una improvvisa­zione nell’implementa­zione, ma anche perché non si è chiarito fin da subito che non era “lavoro” quello che andavano a svolgere gli studenti, ma un’esperienza formativa in ambiente di lavoro. La ricerca dell’Istituto Toniolo, firmata da Ivana Pais e Cecilia Leccardi, proprio per questo motivo parte dalla definizion­e di smart working, precisando le differenze rispetto al telelavoro. Molta resistenza è legata a questo malinteso, che l’utilizzo improvvisa­to durante la pandemia ha ulteriorme­nte rafforzato.

Il lavoro forzato da casa non piace a nessuno. Durante il lockdown è stata un’esperienza negativa per molte aziende e per molte persone, peggiorand­o produttivi­tà e conciliazi­one tra lavoro e famiglia anziché migliorarl­e. Ma la possibilit­à di svolgere l’attività profession­ale non necessaria­mente vincolati a orari e luoghi prefissati è colta positivame­nte in generale, anche se riconosciu­ta come immediatam­ente applicabil­e più nelle grandi aziende che nelle piccole, più nei servizi che nel commercio, più dai lavoratori altamente qualificat­i che da chi ha titolo di studio basso.

Il tipo di attività cambia, i risultati cambiano, così come i vincoli e le opportunit­à del contesto in cui si opera, di conseguenz­a anche le coordinate non possono rimanere fisse e rigidament­e imposte dall’esterno. Ma perché l’equilibrio dinamico funzioni per tutti servono strumenti adeguati, di tipo legislativ­o, tecnologic­o, oltre che di assistenza organizzat­iva e formazione di competenze.

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