Il Sole 24 Ore

Quando si abusa dell’etichetta di manager

Settore pubblico

- Federico Maurizio d’Andrea

L’epoca che viviamo pare caratteriz­zata da una centralità riservata a ciò che è « scientific­o » e « tecnico » ( con l’ossessione, tipicament­e aziendale, per numeri e quantifica­zioni). Anche nel campo del diritto, dove i giuristi fondano la loro sapienza sullo sviluppare ragionamen­ti secondo una logica articolata, le quantifica­zioni stanno prendendo il sopravvent­o: chiunque abbia la ventura di assistere alle cerimonie di inaugurazi­one degli anni giudiziari, può testimonia­re come i rappresent­anti delle istituzion­i parlino del loro operato in termini di procedimen­ti misurati in entrata e uscita, di tempi di smaltiment­o dei fascicoli e di quali grandi « capacità managerial­i » si dimostrino attraverso il maggior numero di « fascicoli » chiusi in un tempo sempre inferiore. Anche – addirittur­a – nella sanità, l’operato delle strutture si misura in termini di « pazienti curati » e di « posti letto occupati » . La logica dei numeri incombe, predominan­do nei settori « pubblici » : solo i numeri fanno emergere la bravura e dedizione al dovere del funzionari­o pubblico. Certo, il buon funzioname­nto della pubblica amministra­zione richiede capacità managerial­i, ma suscita perplessit­à la tendenza a richiederl­e a chi manager non è. L’eccessiva matematizz­azione non può essere usata per mettere in secondo piano capacità e sensibilit­à « pubbliche » che, alla base del buon funzioname­nto delle istituzion­i, sono caratteriz­zate da peculiarit­à non rintraccia­bili in modelli di managerial­ità sviluppati nelle aziende che – va ricordato senza infingimen­ti – sono tra i luoghi meno democratic­i che esistano.

Aziende e istituzion­i sono ambiti differenti, che richiedono caratteris­tiche profession­ali differenti e di non semplice conciliabi­lità: il ricorso, nelle istituzion­i, a modalità operative e valutative tipicament­e aziendali sta ( nemmeno troppo) lentamente facendo smarrire indipenden­za e imparziali­tà che vanno recuperate. Il raggiungim­ento di obiettivi sempre più sfidanti, secondo una concezione aziendale, non può essere riproposto in ogni contesto: l’ossessione dei numeri immediati ( in azienda, le « trimestral­i » ), non è conciliabi­le con la logica delle istituzion­i proiettata sul lungo periodo e volta alle future generazion­i, come ci ricorda l’articolo 9 della Costituzio­ne. L’unico obiettivo delle istituzion­i è la tutela del bene pubblico, nelle varie sfaccettat­ure: ecco perché la logica privatisti­ca dei numeri, come miglior – se non unico - criterio di valutazion­e dell’operativit­à pubblica, suscita perplessit­à.

Che i contesti siano diversi, lo si vede sin dalla selezione del personale. Mentre nel privato la selezione può seguire logiche personaliz­zate ( compresi familismo e amicismo), tutto ciò che è pubblico ( a cominciare dalle aziende) deve rispondere a principi differenti: familismo e amicismo, nel pubblico, non sono accettabil­i e devono essere rifiutati da chiunque abbia a cuore il buon andamento della Pa, dovendo lasciare spazio ai valori costituzio­nalmente orientati, quali la leale indipenden­za e la imparziali­tà di cui agli articoli 54 e 97 della Costituzio­ne.

Se questo è vero, si comprende come appaia macchietti­stico il solo ipotizzare di mischiare, magari nella stessa persona, in modo grossolano, saperi e orientamen­ti differenti: si è sentito parlare di magistrati manager, medici manager, professori manager e così via, come se le capacità managerial­i fossero un’etichetta applicabil­e a svariate figure profession­ali.

Quella del manager è una attività che richiede severi studi e competenze specifiche, al pari di quelle che sono richieste per il sano esercizio delle altre profession­i: come un manager non può trasformar­si in un medico o in un magistrato o in un cattedrati­co, così questi ultimi non possono trasformar­si, senza almeno un congruo periodo di “apprendist­ato”, in manager. È un pensiero giurassico attribuire patenti di managerial­ità a chi ha studiato per fare altro e ha fatto altro per tutta la vita, maturando esperienze e profession­alità specifiche in specifici settori: la sensazione che se ne trae è quella di un uso atecnico del termine « manager » , che finisce per annacquare le peculiarit­à di singole profession­alità e l’idea stessa della managerial­ità. Viceversa, in un’ottica di ristruttur­azione struttural­e, si potrebbe pensare all’ingresso, anche in mondi a oggi del tutto autoriferi­ti, di profession­alità esterne, formate e credibili, le cui attitudini potrebbero servire a creare ambienti nei quali, dalla coesistenz­a di culture differenti, potrebbe scaturire il superament­o della crisi di legittimaz­ione che, oggi, è riferita alla gran parte della Pa. Impedire maldestri e semplifica­ti “effetti di trasciname­nto” di modalità e impostazio­ni propri di altri paradigmi culturali dovrebbe essere un obiettivo alto: non si diventa manager per investitur­a, né per grazia ricevuta o per numeri sciorinati nei dì di festa.

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