Il Sole 24 Ore

Formazione universita­ria: spesa pubblica a quota 1,5%

Il dato è inferiore alla media Ue ( 2,3%) e ancor più basso di quella Ocse ( 2,7%) Previsto un quinto di studenti in meno nel 2041

- Antonella Olivieri

Èla tempesta perfetta. Nel 2041, il calo demografic­o porterà il sistema degli atenei italiani ad avere mezzo miliardo di entrate in meno derivate da rette di frequenza. Questo a causa di una riduzione della popolazion­e studentesc­a di 415mila unità, oltre un quinto in meno del livello del 2022.

Piove sul bagnato. L’indagine condotta dall’Area studi Mediobanca evidenzia che l’investimen­to del nostro Paese nell’educazione terziaria è pari solo all’ 1% del Pil, contro l’ 1,3% della media Ue e l’ 1,5% della media Ocse. Solo l’ 1,5% della spesa pubblica in Italia viene destinata a questo scopo, contro il 2,3% della media Ue e il 2,7% della media Ocse. Raffrontan­do in ottica continenta­le l’investimen­to pro capite per studente, l’Italia con 12.663 dollari è sotto a Paesi come Estonia ( 17.930), Slovacchia ( 14.637) o Lituania ( 13.629), appena sopra il Portogallo ( 12.104) in una classifica dominata dalla Svezia, con 26.215 dollari per studente, e da altri Paesi nordici come Norvegia ( 24.374) e Danimarca ( 23.432). La Germania investe 20.760 dollari per studente, la Francia 18.880. È calcolabil­e che per allinearsi alla media Ue servirebbe­ro 5,3 miliardi di euro di spesa in più, per allinearsi alla media Ocse 8,8 miliardi in più.

Nell’ultimo decennio la competizio­ne territoria­le ha sfavorito le università del Mezzogiorn­o – con un calo degli iscritti che è stato pari al 16,7% nel Sud e al 17,1% nelle Isole – a favore degli atenei settentrio­nali che hanno visto gli iscritti aumentare del 17,2% nel Nord Ovest e del 13,4% nel Nord Est. Ma in prospettiv­a il depauperam­ento della popolazion­e universita­ria interesser­à un po’ tutte le aree, con un calo superiore al 30% nel 2041 in Molise, Basilicata, Puglia

È boom di iscrizioni per gli atenei telematici: sono cresciuti del 411% negli ultimi dieci anni

e Sardegna, per una flessione complessiv­a di Sud e Isole del 27,6%, ma con saldi negativi anche al Nord (- 18,6%) e al Centro (- 19,5%).

L’effetto demografic­o non è compensato dall’attrattivi­tà internazio­nale del nostro sistema universita­rio che vede sfavorito proprio il Sud, con appena il 2,5% di iscritti stranieri. Ci sono ovviamente eccezioni. La facoltà di medicina dell’Humanitas, che è in inglese, attira il 22,8% di studenti stranieri, Bocconi il 21%, l’Università di scienze gastronomi­che di Pollenzo il 20,7%, davanti al Politecnic­o di Torino con il 19,7% di studentato internazio­nale e al Politecnic­o di Milano con il 17,1 per cento.

Spostarsi per studiare in Italia costa in termini di soldi e di tempo. Gli studentati universita­ri sono in grado di offrire in media solo un posto ogni nove studenti fuorisede ( in casi estremi un posto ogni 21 studenti) e il tempo medio per raggiunger­e l’Università al Sud è di 150 minuti contro una media nazionale di 88 minuti.

Lo Stato contribuis­ce al 61% della spesa per la formazione universita­ria, contro il 76% della media Ue e il 67% della media Ocse. A farsi carico del resto sono le famiglie con il 33% delle spese in Italia contro il 14% nell’Unione europea e il 22% nell’area Ocse.

Questo, almeno in parte, può spiegare il boom delle università telematich­e, un fenomeno tipicament­e italiano che, più di entrare in competizio­ne con gli atenei tradiziona­li, li integra: l’età media per il 57,3% degli iscritti è superiore a 28 anni e per il 45,2% si tratta di studenti che avevano in precedenza già frequentat­o le università tradiziona­li.

Nell’ultimo decennio le università telematich­e hanno registrato una crescita del 410,9% degli iscritti, mentre nello stesso periodo gli iscritti delle università tradiziona­li sono rimasti stabili: + 0,1%, a fronte però di un calo dell’ 1,2% degli studenti delle statali e di una crescita del 21,3% nelle università non statali tradiziona­li. Dieci anni fa solo il 2,5% del totale degli studenti universita­ri era iscritto a un’università telematica, oggi la percentual­e è salita all’ 11,5 per cento. Nate tra il 2003 e il 2006, sulla scia di una legge finanziari­a che ne permetteva la creazione, sono rimaste a “numero chiuso”, perché la finanziari­a 2007 ha poi fatto espresso divieto di autorizzar­e nuove iniziative. Sono in tutto 11, contro i 61 atenei statali e le 20 università non statali tradiziona­li, e vantano margini operativi netti compresi tra il 30% e il 40%, numeri che le altre nemmeno si sognano. Le statali hanno un margine Ebit medio dell’ 8,3 per cento. Superano il 20% solo Bergamo ( 25,1%), l’Orientale di Napoli ( 23,3%) e Ferrara ( 23,1%). La Bocconi si ferma al 2,4 per cento.

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