IL VACCINO PER LE IMPRESE? LE «CATENE» GLOBALI
Le aziende che viaggiano sulle «autostrade della globalizzazione» sono ripartite, soprattutto per il traino dell’economia di Pechino. E le strategie impostate nell’era pre pandemia hanno tenuto Il reshoring trascurato: resta un’opzione minore. Un’analisi della Rivista di Politica Economica
L’ultima notizia di questi giorni riguarda i microprocessori. La ripartenza veloce della produzione in Cina sta facendo mancare gli approvvigionamenti di chip per l’industria europea dell’automotive, che rischia così di dover fermare le fabbriche (anche in Italia secondo l’anfia). C’è persino penuria di container e ciò sempre a causa del boom post Covid che sta vivendo l’economia di Xi Jinping. Potremmo commentare che la forza della globalizzazione, nel bene e nel male, dopo un anno di Covid è tutt’altro che scemata, ma forse prima di trarre conclusioni drastiche conviene approfondire il tema e cercare di capire meglio come si sono comportate quest’anno le grandi catene del valore, le «autostrade» della globalizzazione produttiva. Un aiuto in questa direzione viene da un paper pubblicato in questi giorni dalla «Rivista di Politica Economica», diretta da Stefano Manzocchi, e che ha come titolo proprio «Il ruolo delle catene globali del valore nella pandemia: effetti sulle imprese italiane». Ne sono autori quattro studiosi di differenti università che rispondono ai nomi di Giorgia Giovannetti, Michele Mancini, Enrico Marvasi e Giulio Vannelli.
Partiamo dalla identificazione tra globalizzazione e catene del valore. Sostiene il paper che nella fase di iper-globalizzazione la crescita del commercio mondiale è stata due volte la crescita del Pil, mentre storicamente era stata appena superiore all’unità. «La maggiore capacità degli scambi internazionali è stata determinata in gran parte proprio dallo sviluppo delle Grandi Catene del Valore (Gcv)».
Non è tutto. Le catene hanno anche la capacità di trasmettere e amplificare gli choc ciclici: la (auspicata) ripresa sarà dunque più forte nei settori maggiormente integrati perché sono espressione delle imprese più produttive, più grandi, finanziariamente più solide e meglio preparate ad affrontare le crisi. È vero che la partecipazione alle catene implica costi fissi elevati, ma determina sia un effetto di selezione delle migliori imprese sia la creazione di legami dovuti a investimenti specifici più robusti rispetto agli choc. E queste considerazioni sono importanti per capire come le Gcv hanno reagito (meglio) alla pandemia.
Strategie confermate
L’arrivo del virus ha colpito l’economia mondiale in un momento di rallentamento e di spinte protezionistiche, eppure non abbiamo assistito a un arretramento più marcato della globalizzazione. «Diversi fattori lasciano pensare che la pandemia potrebbe non comportare a livello aggregato cambiamenti nelle Gcv così drastici nel lungo periodo», dicono gli autori del paper. Anzi, alcuni cambiamenti tecnologici potranno favorire una ripresa della globalizzazione, mentre rimane incertezza sulle scelte di politica economica. Ovvero sul rilancio sul multipolarismo o meno come effetto della presidenza Biden. Una delle ragioni di resistenza delle catene sta, come già detto, negli elevati costi fissi già effettuati. «È probabile quindi esista una sorta di inerzia nelle Gcv, un’impresa che ha investito all’estero, anche solo costruendo una rete di relazioni, non ha un incentivo a rivedere le proprie scelte perché non recupererebbe le spese». Al contrario la decisione di cambiare strategia o di fare reshoring implicherebbe nuovi esborsi.
Conferma Roberto Vavassori, membro del management team del gruppo Brembo e del direttivo di Clepa, l’associazione europea dei produttori di componenti per l’automotive: «Non c’è stato il tempo per pensare e mettere in atto operazioni di reshoring, la cui convenienza peraltro è tutta da dimostrare. E poi vale una considerazione più generale: non sappiano quanto la situazione di mercato che stiamo vivendo sia congiunturale o strutturale». Nell’attesa di capirlo guai a prendere decisioni affrettate. Così, secondo la Camera di Commercio americana di Shanghai, il 71% delle imprese statunitensi in Cina non ha nessuna intenzione di chiudere i propri impianti locali e solo il 3,7% avrebbe abbracciato il reshoring. E un’indagine condotta dalla Confederation of Swedish Enterprise dà gli stessi esiti: solo il 2% delle imprese scandinave dichiara di voler riportare in patria le produzioni, mentre circa il 15% si limiterà ad aumentare la quota di approvvigionamenti in Svezia e il 13% diversificherà i Paesi da cui rifornirsi.
Anche le imprese italiane si stanno attenendo allo stesso schema: solo l’1,9% ha traslocato gli impianti esteri sul suolo nazionale negli ultimi tre anni. Gli studiosi commentano che i cambiamenti tecnologici, riducendo i costi di coordinamento, alla fine favoriscono le attività disperse geograficamente, però gli stessi inseriscono un caveat: non è detto che il reshoring sia totalmente fuori gioco. In una sorta di equilibrio tra i maggiori investimenti (necessari) sull’automazione 4.0 e i minori vantaggi derivanti dalla delocalizzazione cost saving, rientrare in patria può rappresentare comunque una soluzione per alcune lavorazioni specifiche.
La rete
Veniamo all’italia. Se durante la Grande Crisi 2008-15 i settori più colpiti erano stati quelli più integrati nelle Gcv, durante la pandemia questa relazione è stata meno evidente. Ciò dipende in parte dal fatto che i servizi, più nazionali e strutturalmente meno connessi alle catene, sono stati i più colpiti dal blocco della mobilità delle persone. Conferma Roberto Vavassori: «Le aziende globalizzate sono ripartite per prime grazie alla ripresa e ne ha usufruito soprattutto chi era insediato in Cina, dove la ripresa è stata a V. I nostri cinque stabilimenti, ad esempio, hanno lavorato a pieno ritmo». L’italia manifatturiera inserita nelle reti di produzione internazionale ha avuto dunque una sorta di rete di protezione: la partecipazione alle Gcv, del resto, è maggiore della media mondiale per tutti i settori manifatturieri con l’eccezione di computer ed elettronica, inoltre i nostri migliori partner commerciali come Germania, Usa e Cina su tutti, costituiscono nodi portanti dell’intera struttura di produzione internazionale.
Così è successo che il grado di integrazione nelle Gcv è risultato inversamente proporzionale alla perdita di fatturato: le imprese concentrate sul mercato interno hanno perso in media oltre il 30%, la quota scende al 13% per chi esporta una quota rilevante dei propri prodotti, importa beni intermedi o ha impianti all’estero. E come tiene a sottolineare Vavassori, le catene già dalla prima ondata sono state persino un elemento di governance dell’emergenza sanitaria. «Abbiamo trovato in Polonia le visiere che nelle prime settimane mancavano alle farmacie di Bergamo. Ma poi più in generale le filiere hanno adottato procedure omogenee in tutti gli stabilimenti, si sono giovate della collaborazione dei migliori studiosi e quindi hanno generato delle esternalità positive. Come la riduzione della pressione sulle terapie intensive, importantissime per un territorio martoriato come quello lombardo».
Xi Jinping, 69 anni
La ripresa sarà più forte nei settori più integrati dove le imprese sono più produttive, più grandi e solide