«ABBIAMO SPRECATO OLIVETTI E OMNITEL ORA NON PERDIAMO IL PROSSIMO BEZOS»
DOPO TANTE FALSE PARTENZE
Le occasioni mancate? Molte Da Olivetti a Internet agganciato alla fine degli anni 90 quando stava per scoppiare la bolla E Omnitel doveva essere predatore...
Investiamo in startup un decimo della Francia, eppure i capitali ci sono e le capacità innovative sono diffuse: il fondatore di Vitaminic, oggi venture capitalist, racconta in un libro per Solferino vizi e virtù della Rete. Ora con Draghi, spiega, c’è una combinazione di fattori che capita di rado
«Il governo Draghi può essere l’occasione giusta per l’italia digitale? Sì, una combinazione del genere si presenta raramente. Anzitutto perché c’è un’enorme domanda di digitale dalla società italiana, un fatto inedito, e poi perché abbiamo un primo ministro e un governo che lo ha indicato fra le priorità». Gianluca Dettori è stato manager in Olivetti, poi un pioniere di Internet in Italia fondando e quotando Vitaminic, una specie di Spotify ante litteram, quindi ha trasferito l’esperienza di imprenditore sul terreno degli investimenti prima come business angel e infine come venture capitalist. Dal 26 febbraio è presidente di Vc Hub, l’associazione di riferimento di venture capital e startup in Italia. Ha scritto con Debora Ferraro «L’italia nella rete», edito da Solferino, in libreria da pochi giorni. In 240 pagine racconta l’italia che ha più volte anticipato tanti, se non tutti, nell’informatica, nella telefonia mobile, nel web ma che poi, per ragioni ricorrenti, ha lasciato che la leadership si trasformasse in occasione mancata. «Ascesa, caduta e resurrezione della Net economy», si legge nel sottotitolo, e forse oggi il termine resurrezione può essere più attuale che mai.
La domanda di digitale resterà forte?
«In questa situazione tutti noi in ciò che facevamo, dal lavoro alla spesa fino alla Dad, siamo stati appesi a un filo digitale, e ciò ha prodotto una domanda forte. Che aumenta: siamo di fronte a un imperativo digitale. Viviamo in un mondo ibrido, fisico e digitale, e dobbiamo trarne concreti vantaggi. Non si torna indietro».
Non c’è il rischio occasione mancata?
«Penso di no, perché abbiamo superato la fase della new economy descritta nel libro, nella quale c’erano entusiasmo e certo inconsapevolezza, ma quando il sogno si poteva materializzare, tutto improvvisamente è evaporato. Oggi siamo in una fase nuova, nella quale troviamo un’infrastruttura anzitutto di competenze, perché startup e venture capital hanno superato la fase di rinascita pionieristica di 10 anni fa: attualmente vengono investiti circa 700 milioni all’anno in startup, ce ne sono 12 mila registrate e alcune “scalano” anche all’estero, e ci sono 50-60 mila giovani impegnati a costruirle e consolidarle, i fondi attivi sono una trentina. Oggi su questa infrastruttura si può fare conto». E cos’altro rende l’occasione unica?
«Il terreno fertile dell’infrastruttura che ho descritto, e una leadership che, a partire da Mario Draghi, e con personalità come Vittorio Colao e Roberto Cingolani, conosce bene il tema dell’innovazione, ha una chiara consapevolezza di quale possa essere l’impatto e porterà a bordo persone con le quali far funzionare ancora meglio il mondo delle startup in Italia. Va riconosciuto che molto terreno è già stato preparato dai governi precedenti. Da Monti, che ha lanciato la normativa sulle startup innovative, tutti, fino all’ultimo esecutivo che ha lanciato il Fondo nazionale innovazione, hanno migliorato il sistema. Il nostro assetto normativo è al top in Europa».
E poi ci sono le risorse europee.
«Non è banale avere a disposizione 200 miliardi che, se impiegati bene, sono un investimento senza precedenti. Quindi, abbiamo una generazione emergente di startup e una leadership che ha una visione di lungo periodo: l’occasione è unica».
Tuttavia continua la fuga dei cervelli. «Non basta il venture capital, e in startup investiamo un decimo rispetto alla Francia. Però molti li stiamo tenendo. E non dispero affatto che le cose possano cambiare, date le nuove condizioni, e magari invertirsi: l’italia può attrarre cervelli».
Ma cosa ce lo impedisce ora?
«Nel libro lo chiamo il nostro Purgatorio digitale: ci portiamo ancora dietro un vissuto, un tema culturale. Fino a dieci anni fa se andavi a parlare di Internet la gente ti sbatteva la porta in faccia. Mentre all’estero esplodevano i social network, qui nessuno voleva sentirne parlare. Il Covid ha spazzato via un po’ di queste resistenze».
I capitali ci sono?
«Il risparmio c’è, l’investimento non abbastanza. Tema endemico per l’italia. I capitali ci sono ma i soldi non arrivano agevolmente alle startup a causa di una scarsa conoscenza del settore e una percepita loro alta rischiosità. Certo, la singola startup è un rischio ma fare venture capital è diverso: noi costruiamo portafogli di investimenti in 2030 startup bilanciando il rischio. Nel mondo questo settore è trainato dai grandi investitori istituzionali. In Italia si stanno avvicinando ora. Questa asset class è infinitesimale negli investimenti rispetto ai Paesi nostri vicini. Forse anche questo sta però cambiando».
Cosa l’ha portata al venture capital?
«Ho fatto tre mestieri. Il manager in Olivetti, l’imprenditore in Vitaminic e lì ho conosciuto il venture capital. Poi negli anni di Monti ho deciso di rimanere in Italia e provare a trasferire ciò che avevo imparato come imprenditore per fare l’investitore. Prima come “angel”, poi con Primomiglio, società di investimento specializzata in startup di alta tecnologia. Oggi gestiamo due fondi che investono in due settori: digitale e spaziale. Nel primo, attivo dal 2016, ci sono 45 milioni su 25 società; con il secondo, partito in agosto, da 80 milioni, tuttora in raccolta, abbiamo già fatto due operazioni in startup italiane».
Quali sono state le occasioni mancate?
«Tante. Olivetti: siamo usciti da semiconduttori e informatica quando stava esplodendo il mercato per rimanere sulle macchine da scrivere. Internet: per un pelo, mentre ovunque tutto accade dal 1995, l’italia parte nel 1999 e dopo un anno scoppia la bolla, dura troppo poco e gli investitori scompaiono subito; telefonia mobile. L’italia è caso di studio mondiale, il più grande mercato mobile consumer e fra i primi dove è stata lanciata la banda larga, Omnitel è stata preda ma doveva essere predatore, e quella che oggi è Vodafone avrebbe dovuto essere Omnitel».
C’è un filo rosso?
«Ci sono in Italia temi culturali e di sistema che ci fanno perdere i treni con in mano un biglietto di prima classe».
Errori che si potranno evitare?
«Siamo un Paese conservatore, abbiamo un atteggiamento intergenerazionale peculiare per non dire strano, manchiamo di visione di lungo termine. Le cose, le tecnologie in particolare, le viviamo con effetto fashion: vanno e vengono come mode. All’estero no. Mi sembra proprio che Draghi abbia visione di lungo termine, consideri un dovere lasciare ai nostri figli un mondo migliore, guardi ai fondamentali, capisca quali capacità e competitività possono dare al Paese le infrastrutture digitali. Non ripeterà gli errori».
Perché ha scritto il libro?
«Perché, a maggior ragione ora, non vedo motivi per cui il prossimo Jeff Bezos non possa essere italiano. E perché dovremmo porci questo obiettivo: fare in modo che l’italia dia ai nostri figli le stesse opportunità che possono avere a San Francisco e Shanghai».