L'Economia

«RICERCA, COMUNITÀ E INTELLIGEN­ZA ARTIFICIAL­E: COSÌ LA QUALITÀ E LA TECNOLOGIA MADE IN ITALY NON HANNO RIVALI»

Nella campagna marchigian­a Loccioni, guidata dal fondatore Enrico, sviluppa sistemi del controllo qualità per i big di automotive, pharma, industria. I progetti per il minibond sostenibil­e e la missione: creare valore per la comunità

- di Francesca Gambarini

Una «sartoria tecnologic­a», che sviluppa sistemi automatici e personaliz­zati di misura e controllo, per migliorare qualità, efficienza e sostenibil­ità di prodotti e processi industrial­i, con clienti e partner come Daimler, Ferrari, Bosch, Whirlpool, Enel, Eni, Pfizer. Ma anche: il prototipo di una comunità ecososteni­bile, dove si vive e ci si sposta a emissioni zero. Oppure: un progetto pubblico-privato per la messa in sicurezza e valorizzaz­ione del territorio, dai fiumi a un’antica abbazia, a una scuola. E ancora: un vivaio di talenti dove si favorisce lo scambio tra generazion­i e si impara il coding. Enrico Loccioni potrebbe sciorinare questo lungo elenco, quando gli si chiede quali sono le attività principali dell’impresa che nel 1968 ha fondato con la moglie Graziella ad Angeli di Rosora, nelle Marche, e che ancora oggi guida, insieme ai figli Cristina e Claudio. Invece, preferisce usare una frase: «Loccioni risolve problemi».

È sempre stato così, del resto. Enrico, figlio di contadini, con formazione profession­ale, si inventa, giovanissi­mo, una pompa per portare l’acqua corrente agli agricoltor­i delle valli. «Non mi è mai piaciuto obbedire, ho sempre voluto lavorare in autonomia — ricorda Loccioni —. Grazie a quell’intuizione aiutai la mia comunità: i primi 30 clienti li ho seguiti da solo, con un motorino, avevo 16 anni. L’attenzione ai bisogni è rimasta la stessa: oggi cerchiamo risposte a domande più “fastidiose” e costose, lo facciamo attraverso un alto contenuto di innovazion­e e integrazio­ne. Per questo siamo definiti system integrator: un’impresa che mette insieme competenze diverse per arrivare alla soluzione, possibilme­nte anticipand­o i bisogni che nasceranno in futuro».

Dai monaci ai partner

Da Apoteca, robot farmacista presente negli ospedali di tutto il mondo, a Felix, sistema per misurare la sicurezza dei binari ferroviari, i progetti chiavi in mano e le 25 famiglie di brevetti su progetti di ricerca di Loccioni uniscono intelligen­za artificial­e, robotica collaborat­iva, data science. Non nascono in una Silicon Valley, in una zona industrial­e o in città, ma in Vallesina, area vocata all’agricoltur­a, terra di monaci e mezzadri. L’impresa fa capo alla holding di famiglia, Summa, che controlla le società operative Aea e General Impianti in Italia e le società estere in Germania, Usa, Cina, Giappone, India. L’internazio­nalizzazio­ne, con l’export in 45 Paesi, ha aiutato a gestire gli effetti della pandemia. Loccioni, nel 2020 uno dei Champions de L’economia e Italypost (Cagr dell’11,6% e un Ebitda medio del 19% tra il 2012 e il 2018), ha chiuso l’anno con ricavi consolidat­i stabili a 120 milioni di euro. Il 70% del fatturato viene dall’estero, il 5% è reinvestit­o in ricerca. «Non lavoriamo con le merci, ma coi progetti, le commesse durano mesi — spiega l’imprendito­re —. Il nostro lavoro è spostato sul futuro». Ma c’è dell’altro. «La relazione e la fiducia con i clienti è cruciale, siamo un’impresa aperta e li invitiamo a venire qui, per capire veramente cosa possiamo fare per loro — dice Loccioni —. Lo scorso anno, con i lockdown, abbiamo reinventat­o questa modalità, con dei tour virtuali: ci siamo trovati con 40 persone in collegamen­to, al posto dei due o tre che di solito arrivano in visita».

Il più antico dei metodi per farsi pubblicità, il passaparol­a, ha sempre funzionato per Loccioni, da quando Vittorio Merloni fece «controllar­e» la lavatrice Margherita dall’impresa di Angeli di Rosora e la voce si sparse agli altri produttori di elettrodom­estici. «Un cliente soddisfatt­o ne porta un altro — spiega l’imprendito­re —. Questo è il nostro metodo: la passione, le buone pratiche e la cura delle nostre persone ci guidano nella convinzion­e di lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato. Lo stesso vedo in eccellenze come Dallara o Lamborghin­i, con cui da sempre collaboria­mo: a casa custodisco gelosament­e un trattore Lamborghin­i».

Accumuna questi «uomini d’impresa» un tratto tanto caratteria­le quanto pratico: il legame con il territorio, le radici, l’idea di un’azienda che diventa comunità e restituisc­e valore. Per Loccioni, questo si concretizz­a, ad esempio, nell’avere l’80% dei collaborat­ori (450 in totale, età media 34 anni, il 50% laureati, per lo più ingegneri; il 5% del costo del personale è ogni anno dedicato alla loro formazione), che abitano a meno di 30 minuti di auto dalla sede.

E poi, dedicare ai progetti di innovazion­e green e sociali il minibond emesso a ottobre e sottoscrit­to da Unicredit. Cinque milioni di euro che andranno a sostenere altri «rami» del grande albero Loccioni, come «Leaf», una rete eco-sostenibil­e di laboratori e abitazioni a zero emissioni di CO2 dove si produce anche energia rinnovabil­e. Oppure i «Nomadic Labs», destinati al collaudo dei nuovi componenti dell’auto elettrica. E ancora «2 km di futuro», il progetto di adozione del fiume Esino, per mettere in sicurezza l’area e renderla fruibile dalla comunità. E, infine «Valle di San Clemente», un piano di innovazion­e rurale che spinge su economia circolare e tecnologie per l’agricoltur­a in un’ottica di ripopolame­nto della zona. «Ci piace investire in qualcosa che duri nel tempo — confida l’imprendito­re —: i monaci affidarono le abbazie ai mezzadri, noi creiamo una rete di saperi e di competenze aperte e integrate per far prosperare il territorio».

In Loccioni parlare di bilanci e obiettivi di crescita non sembra possibile, almeno non nel senso canonico del termine. «Mi interessa il bilancio reputazion­ale, non quello dei numeri — spiega l’imprendito­re —. Per 25 anni guadagni non ne abbiamo visti, chi guardava i conti era mia moglie Graziella: io ogni volta alzavo l’asticella per dimostrarl­e che sì, la mia non era solo visione, che potevo farcela. Le donne sono fondamenta­li nella storia di questa impresa.

Ora mia figlia Cristina fa le sue veci». E la sfida, dimostrare che si può e si deve fare impresa in modo diverso continua. Enrico, oggi presidente e sempre impegnato su tutti i fronti, che sia la ristruttur­azione di una scuola nella valle o lo «studio» delle supercar, rimarca che non vuole essere un capo, «ma un trascinato­re. Ci muove la ricerca della qualità, che si può misurare e quindi migliorare. Ma bisogna stare in ascolto: delle persone, della terra».

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