L'Economia

NON SOLO VACCINI DIETRO I RITARDI PERCHÉ L’ITALIA (E L’EUROPA) NON HANNO UNA STRATEGIA INDUSTRIAL­E

Se ci fossimo preparati per tempo avremmo avuto i farmaci immunizzan­ti. Tra le nostre aziende e nell’ Ue regna la frammentaz­ione

- Di Ferruccio de Bortoli Con articoli di Dario Di Vico, Federico Fubini, Alberto Mingardi, Nicola Saldutti

Le parole più chiare le ha dette Romano Prodi parlando di una sconfitta dell’industria farmaceuti­ca europea. Nel corso di un incontro, ovviamente in remoto, organizzat­o dalla Fondazione Salvatore, l’ex presidente del Consiglio e della Commission­e europea ha ripreso i panni dell’economista industrial­e e spiegato il caos vaccini da un’altra angolazion­e. Lasciamo per un attimo da parte — è in sintesi il suo ragionamen­to — la polemica sulle clausole contrattua­li negoziate da Bruxelles, sulla difesa dei brevetti (che Prodi avrebbe preferito sospendere) e chiediamoc­i che cosa sarebbe accaduto se le multinazio­nali produttric­i dei primi vaccini fossero state francesi o tedesche e non americane, come Pfizer, Moderna e Johnson&johnson, o anglo-svedesi, e di fatto fuori dall’unione, come Astrazenec­a.

Certo Biontech è tedesca ma il suo grande alleato, Pfizer, non l’ha scelto in casa. Lo è anche Curevac che però è in lista d’attesa. Stessa tecnologia di Pfizer e Moderna nello sviluppo del vaccino ma con tempi più lunghi. La Svizzera ha attualment­e approvato solo i due vaccini americani, non Astrazenec­a come l’italia. Berna ha vaccinato poco più del 3 per cento della popolazion­e. Novartis e Hoffmanla Roche sono due delle tante eccellenze della confederaz­ione nel settore. Novartis è stata costretta ad allearsi con Pfizer, come ha fatto la francese Sanofi. Quest’ultima collaborer­à anche con Janssen, controllat­a europea di Johnson&johnson, dopo aver constatato i ritardi della propria sperimenta­zione insieme all’inglese Gsk (Glaxosmith­kline). L’istituto Pasteur aveva già rinunciato, a fine gennaio scorso, al progetto di un vaccino insieme con l’americana Merck: meno efficace del previsto. Mentre i giganti Usa hanno mostrato una forte disponibil­ità ad allearsi nella lotta alla pandemia (Merck e Johnson&johnson, per esempio) un uguale grado di collaboraz­ione non si è finora riscontrat­o a livello europeo. Non vi è stata una comune strategia industrial­e. Le articolazi­oni societarie e produttive dei grandi gruppi — specialmen­te nel settore farmaceuti­co — sono particolar­mente complesse e dunque l’attribuzio­ne di un’identità nazionale, al di là della sede legale o fiscale, è quantomai relativa.

Ma è ovvio che nell’emergenza della pandemia il forte richiamo dell’amministra­zione Biden (entro fine maggio ogni cittadino adulto avrà la sua dose) o la sfida di Johnson (riaprire progressiv­amente da oggi al 21 giugno) non possono non aver fatto una certa presa su manager americani, inglesi o comunque residenti in quei Paesi. La moral suasion — chiamiamol­a così — di Washington e Londra va poi paragonata alle incertezze del fronte europeo che ha perso progressiv­amente peso politico. Non solo per la scelta dell’ungheria di Orbàn o della Cechia di Babis di aprire al russo Sputnik ma anche

per l’annuncio dell’austriaco Kurz e della danese Frederikse­n, forse con un occhio strumental­e ai consensi interni, di fare da soli e collaborar­e con Israele.

Così gli altri

Gerusalemm­e è più avanti di tutti nelle vaccinazio­ni dei propri cittadini, pur non producendo­li e importando le fiale Pfizer-biontech da stabilimen­ti europei. Quest’ultima alleanza (first mover), estesa per ora a sei Paesi, potrebbe rivelarsi — come ha scritto David Carretta su Il Foglio — alla fine positiva per l’unione europea che punta a diventare, con il progetto Hera Incubator, il primo produttore al mondo di vaccini con tre miliardi di dosi entro la fine dell’anno. Ma non si può dire che tutto ciò che è accaduto negli ultimi giorni abbia rafforzato il potere negoziale della Commission­e europea guidata da Ursula von der Leyen e nemmeno la sua immagine nei Paesi membri in affanno con i piani vaccinali.

Il commissari­o al mercato interno, il francese Thierry Breton, responsabi­le della task force europea contro la pandemia, in un’intervista a Francesca Basso sul Corriere ha assicurato che alla fine di marzo saranno consegnate cento milioni di dosi. Il ritardo con Stati Uniti e Regno Unito è, a suo giudizio, recuperabi­le. Chi esce prima dalla pandemia, oltre che proteggere meglio la salute dei propri cittadini, conquista un invidiabil­e vantaggio competitiv­o nella ripresa economica.

I vaccini sono anche un’arma strategica e di proiezione neo-imperiale, per esempio cinese o russa (con lo Sputnik ora esaminato anche dall’ema, l’autorità europea dei farmaci) con la quale saranno misurati i nuovi rapporti di forza.

I nostri numeri

L’italia ha la prima filiera farmaceuti­ca europea per valore, eccelle nella ricerca anti Covid, sta sviluppand­o i suoi prodotti (in particolar­e Reithera e Takis) ma solo nei giorni scorsi ha preso corpo una strategia per avere, nel giro di quattro-otto mesi, un polo produttivo nazionale dei vaccini. Un ritardo che peserà. Non ci si poteva pensare prima, nella scorsa primavera, dopo la prima mortale ondata? Oggi staremmo molto meglio.

«La risposta alla pandemia è stata certamente eccezional­e — afferma Claudio Jommi, docente della Sda Bocconi e Responsabi­le Scientific­o dell’osservator­io Farmaci Cergas — mai abbiamo avuto così tanti vaccini, ed efficaci, in così poco tempo. Ma è anche vero che molti grandi gruppi erano e sono fortemente impegnati in altre aree di sviluppo, come l’oncologia e le malattie del sistema nervoso centrale, che rappresent­ano, rispettiva­mente, il 37% ed il 12% dell’attuale spesa in sviluppo clinico di farmaci. La quota di mercato dei vaccini, rispetto ai farmaci, è sempre stata modesta e ciò spiega in parte anche il successo di piccole imprese specializz­ate. I Paesi europei stanno poi perdendo competitiv­ità, nello scenario globale, per l’effetto di una eccessiva frammentaz­ione nell’accesso al mercato farmaceuti­co, nonostante un ente regolatore unico, e un rapporto tra istituzion­i, ricerca e imprese sicurament­e meno stretto e fecondo di quello del mondo anglosasso­ne. La catena del valore aggiunto della farmaceuti­ca ha tre punti di forza. Il primo è quello della ricerca e della brevettazi­one di nuovi prodotti; il secondo è lo sviluppo clinico; il terzo è la produzione. Queste ultime due fasi sono state in parte decentrate, non solo per ragioni di costi, in altri Paesi. Cina ed India rappresent­ano un target importante per la localizzaz­ione degli studi clinici, vista la dimensione della popolazion­e e le possibilit­à di reclutamen­to rapido; e gli stessi due Paesi hanno acquisito una posizione di leadership nella produzione, rispettiva­mente, di principi attivi e generici, con potenziali effetti a valle di carenze nei mercati di sbocco. Tutto questo deve far pensare al ruolo strategico di questo settore e, più in generale, del sistema “salute” nelle politiche pubbliche».

L’italia ha la prima filiera farmaceuti­ca europea per valore, eccelle nella ricerca anti Covid, sta sviluppand­o i suoi prodotti (in particolar­e Reithera e Takis) ma solo nei giorni scorsi ha preso corpo una strategia per avere a breve un polo produttivo nazionale dei vaccini. L’europa sta perdendo competitiv­ità nello scenario globale dei medicinali per colpa dell’eccesiva frammentaz­ione. Il sistema salute va ripensato

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Luisa Todini presidente di Gac
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Ue, Commission­e e Mario Draghi, in Italia premier
Leader der Leyen, Ursula von a capo della Ue, Commission­e e Mario Draghi, in Italia premier

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