NON SOLO VACCINI DIETRO I RITARDI PERCHÉ L’ITALIA (E L’EUROPA) NON HANNO UNA STRATEGIA INDUSTRIALE
Se ci fossimo preparati per tempo avremmo avuto i farmaci immunizzanti. Tra le nostre aziende e nell’ Ue regna la frammentazione
Le parole più chiare le ha dette Romano Prodi parlando di una sconfitta dell’industria farmaceutica europea. Nel corso di un incontro, ovviamente in remoto, organizzato dalla Fondazione Salvatore, l’ex presidente del Consiglio e della Commissione europea ha ripreso i panni dell’economista industriale e spiegato il caos vaccini da un’altra angolazione. Lasciamo per un attimo da parte — è in sintesi il suo ragionamento — la polemica sulle clausole contrattuali negoziate da Bruxelles, sulla difesa dei brevetti (che Prodi avrebbe preferito sospendere) e chiediamoci che cosa sarebbe accaduto se le multinazionali produttrici dei primi vaccini fossero state francesi o tedesche e non americane, come Pfizer, Moderna e Johnson&johnson, o anglo-svedesi, e di fatto fuori dall’unione, come Astrazeneca.
Certo Biontech è tedesca ma il suo grande alleato, Pfizer, non l’ha scelto in casa. Lo è anche Curevac che però è in lista d’attesa. Stessa tecnologia di Pfizer e Moderna nello sviluppo del vaccino ma con tempi più lunghi. La Svizzera ha attualmente approvato solo i due vaccini americani, non Astrazeneca come l’italia. Berna ha vaccinato poco più del 3 per cento della popolazione. Novartis e Hoffmanla Roche sono due delle tante eccellenze della confederazione nel settore. Novartis è stata costretta ad allearsi con Pfizer, come ha fatto la francese Sanofi. Quest’ultima collaborerà anche con Janssen, controllata europea di Johnson&johnson, dopo aver constatato i ritardi della propria sperimentazione insieme all’inglese Gsk (Glaxosmithkline). L’istituto Pasteur aveva già rinunciato, a fine gennaio scorso, al progetto di un vaccino insieme con l’americana Merck: meno efficace del previsto. Mentre i giganti Usa hanno mostrato una forte disponibilità ad allearsi nella lotta alla pandemia (Merck e Johnson&johnson, per esempio) un uguale grado di collaborazione non si è finora riscontrato a livello europeo. Non vi è stata una comune strategia industriale. Le articolazioni societarie e produttive dei grandi gruppi — specialmente nel settore farmaceutico — sono particolarmente complesse e dunque l’attribuzione di un’identità nazionale, al di là della sede legale o fiscale, è quantomai relativa.
Ma è ovvio che nell’emergenza della pandemia il forte richiamo dell’amministrazione Biden (entro fine maggio ogni cittadino adulto avrà la sua dose) o la sfida di Johnson (riaprire progressivamente da oggi al 21 giugno) non possono non aver fatto una certa presa su manager americani, inglesi o comunque residenti in quei Paesi. La moral suasion — chiamiamola così — di Washington e Londra va poi paragonata alle incertezze del fronte europeo che ha perso progressivamente peso politico. Non solo per la scelta dell’ungheria di Orbàn o della Cechia di Babis di aprire al russo Sputnik ma anche
per l’annuncio dell’austriaco Kurz e della danese Frederiksen, forse con un occhio strumentale ai consensi interni, di fare da soli e collaborare con Israele.
Così gli altri
Gerusalemme è più avanti di tutti nelle vaccinazioni dei propri cittadini, pur non producendoli e importando le fiale Pfizer-biontech da stabilimenti europei. Quest’ultima alleanza (first mover), estesa per ora a sei Paesi, potrebbe rivelarsi — come ha scritto David Carretta su Il Foglio — alla fine positiva per l’unione europea che punta a diventare, con il progetto Hera Incubator, il primo produttore al mondo di vaccini con tre miliardi di dosi entro la fine dell’anno. Ma non si può dire che tutto ciò che è accaduto negli ultimi giorni abbia rafforzato il potere negoziale della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen e nemmeno la sua immagine nei Paesi membri in affanno con i piani vaccinali.
Il commissario al mercato interno, il francese Thierry Breton, responsabile della task force europea contro la pandemia, in un’intervista a Francesca Basso sul Corriere ha assicurato che alla fine di marzo saranno consegnate cento milioni di dosi. Il ritardo con Stati Uniti e Regno Unito è, a suo giudizio, recuperabile. Chi esce prima dalla pandemia, oltre che proteggere meglio la salute dei propri cittadini, conquista un invidiabile vantaggio competitivo nella ripresa economica.
I vaccini sono anche un’arma strategica e di proiezione neo-imperiale, per esempio cinese o russa (con lo Sputnik ora esaminato anche dall’ema, l’autorità europea dei farmaci) con la quale saranno misurati i nuovi rapporti di forza.
I nostri numeri
L’italia ha la prima filiera farmaceutica europea per valore, eccelle nella ricerca anti Covid, sta sviluppando i suoi prodotti (in particolare Reithera e Takis) ma solo nei giorni scorsi ha preso corpo una strategia per avere, nel giro di quattro-otto mesi, un polo produttivo nazionale dei vaccini. Un ritardo che peserà. Non ci si poteva pensare prima, nella scorsa primavera, dopo la prima mortale ondata? Oggi staremmo molto meglio.
«La risposta alla pandemia è stata certamente eccezionale — afferma Claudio Jommi, docente della Sda Bocconi e Responsabile Scientifico dell’osservatorio Farmaci Cergas — mai abbiamo avuto così tanti vaccini, ed efficaci, in così poco tempo. Ma è anche vero che molti grandi gruppi erano e sono fortemente impegnati in altre aree di sviluppo, come l’oncologia e le malattie del sistema nervoso centrale, che rappresentano, rispettivamente, il 37% ed il 12% dell’attuale spesa in sviluppo clinico di farmaci. La quota di mercato dei vaccini, rispetto ai farmaci, è sempre stata modesta e ciò spiega in parte anche il successo di piccole imprese specializzate. I Paesi europei stanno poi perdendo competitività, nello scenario globale, per l’effetto di una eccessiva frammentazione nell’accesso al mercato farmaceutico, nonostante un ente regolatore unico, e un rapporto tra istituzioni, ricerca e imprese sicuramente meno stretto e fecondo di quello del mondo anglosassone. La catena del valore aggiunto della farmaceutica ha tre punti di forza. Il primo è quello della ricerca e della brevettazione di nuovi prodotti; il secondo è lo sviluppo clinico; il terzo è la produzione. Queste ultime due fasi sono state in parte decentrate, non solo per ragioni di costi, in altri Paesi. Cina ed India rappresentano un target importante per la localizzazione degli studi clinici, vista la dimensione della popolazione e le possibilità di reclutamento rapido; e gli stessi due Paesi hanno acquisito una posizione di leadership nella produzione, rispettivamente, di principi attivi e generici, con potenziali effetti a valle di carenze nei mercati di sbocco. Tutto questo deve far pensare al ruolo strategico di questo settore e, più in generale, del sistema “salute” nelle politiche pubbliche».
L’italia ha la prima filiera farmaceutica europea per valore, eccelle nella ricerca anti Covid, sta sviluppando i suoi prodotti (in particolare Reithera e Takis) ma solo nei giorni scorsi ha preso corpo una strategia per avere a breve un polo produttivo nazionale dei vaccini. L’europa sta perdendo competitività nello scenario globale dei medicinali per colpa dell’eccesiva frammentazione. Il sistema salute va ripensato