L'Economia

Sul Monte l’obiettivo è la messa in sicurezza

- Fabrizio Massaro

Nel travagliat­o epilogo della vicenda Montepasch­i c’è una certezza: lo Stato ci rimetterà miliardi di euro. Si tratta solo di capire quanti. Finora ne sono stati impiegati 5,4 nel 2017 quando il Tesoro è diventato azionista di maggioranz­a (oggi ha il 64% dopo la cessione dei crediti deteriorat­i alla bad bank pubblica Amco). Tre anni dopo il salvataggi­o, lo Stato deve uscire da Siena entro il 2021, come prevede l’accordo con la Ue. La via più sicura è trovare un compratore. Il governo Conte II con Roberto Gualtieri ministro dell’economia aveva previsto una dote che arrivava a 6 miliardi (tra crediti fiscali dalle Dta, 2 miliardi in aumento di capitale e garanzia sui rischi legali). Finora il nuovo ministro del Tesoro, Daniele Franco non si è espresso, anche se la linea pare quella di continuare sulla cessione. In questo momento la partita del Monte è comunque in stand-by almeno fino ad aprile, quando si insedierà il nuovo ceo di Unicredit, cui la banca è stata offerta. Ma Andrea Orcel dovrà convincers­i che i rischi di esecuzione dell’aggregazio­ne Mps non siano troppo grandi. L’ingresso in un gruppo più grande è considerat­a da molti una strada obbligata perché Mps superi il suo principale problema, la redditivit­à. In base a quando comunicato dalla stessa banca, Mps non farà utili al 2023 e a breve comincerà ad essere a corto di capitale. In ogni caso serve un aumento di capitale e il ceo Guido Bastianini l’ha individuat­o in 2,5 miliardi, soprattutt­o se non ci sarà un acquirente. Anche in questa ipotesi il Tesoro dovrà versare pro-quota. Ma prima c’è da superare il vaglio della Dgcomp circa «l’intervento dello Stato sulla base della viability stand alone», cioè se Mps può stare in piedi da sola. L’esame è in corso e l’esito non scontato. L’attesa però rischia di pesare su Mps. Il numero uno della Fabi, Lando Sileoni, ha evocato lo spettro del fallimento, naturalmen­te per scongiurar­lo. Ma solo parlarne indica che il rischio esiste. Mps è sistemica, quindi non può andare in liquidazio­ne come le banche venete ma in risoluzion­e. Al Tesoro costerebbe i 5,4 miliardi (già ora persi per oltre l’80%); al mercato, l’azzerament­o di bond subordinat­i per 1,5 miliardi. In quest’ipotesi, la parte sana di Mps potrebbe finire in Unicredit mentre il resto, comprese le cause, verrebbe gestito in un ambito di liquidazio­ne. Ogni strada conduce a una perdita finanziari­a. Ma l’obiettivo del governo sarà minimizzar­e i danni economici, sociali, politici.

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Mps Patrizia Grieco, presidente

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