Sul Monte l’obiettivo è la messa in sicurezza
Nel travagliato epilogo della vicenda Montepaschi c’è una certezza: lo Stato ci rimetterà miliardi di euro. Si tratta solo di capire quanti. Finora ne sono stati impiegati 5,4 nel 2017 quando il Tesoro è diventato azionista di maggioranza (oggi ha il 64% dopo la cessione dei crediti deteriorati alla bad bank pubblica Amco). Tre anni dopo il salvataggio, lo Stato deve uscire da Siena entro il 2021, come prevede l’accordo con la Ue. La via più sicura è trovare un compratore. Il governo Conte II con Roberto Gualtieri ministro dell’economia aveva previsto una dote che arrivava a 6 miliardi (tra crediti fiscali dalle Dta, 2 miliardi in aumento di capitale e garanzia sui rischi legali). Finora il nuovo ministro del Tesoro, Daniele Franco non si è espresso, anche se la linea pare quella di continuare sulla cessione. In questo momento la partita del Monte è comunque in stand-by almeno fino ad aprile, quando si insedierà il nuovo ceo di Unicredit, cui la banca è stata offerta. Ma Andrea Orcel dovrà convincersi che i rischi di esecuzione dell’aggregazione Mps non siano troppo grandi. L’ingresso in un gruppo più grande è considerata da molti una strada obbligata perché Mps superi il suo principale problema, la redditività. In base a quando comunicato dalla stessa banca, Mps non farà utili al 2023 e a breve comincerà ad essere a corto di capitale. In ogni caso serve un aumento di capitale e il ceo Guido Bastianini l’ha individuato in 2,5 miliardi, soprattutto se non ci sarà un acquirente. Anche in questa ipotesi il Tesoro dovrà versare pro-quota. Ma prima c’è da superare il vaglio della Dgcomp circa «l’intervento dello Stato sulla base della viability stand alone», cioè se Mps può stare in piedi da sola. L’esame è in corso e l’esito non scontato. L’attesa però rischia di pesare su Mps. Il numero uno della Fabi, Lando Sileoni, ha evocato lo spettro del fallimento, naturalmente per scongiurarlo. Ma solo parlarne indica che il rischio esiste. Mps è sistemica, quindi non può andare in liquidazione come le banche venete ma in risoluzione. Al Tesoro costerebbe i 5,4 miliardi (già ora persi per oltre l’80%); al mercato, l’azzeramento di bond subordinati per 1,5 miliardi. In quest’ipotesi, la parte sana di Mps potrebbe finire in Unicredit mentre il resto, comprese le cause, verrebbe gestito in un ambito di liquidazione. Ogni strada conduce a una perdita finanziaria. Ma l’obiettivo del governo sarà minimizzare i danni economici, sociali, politici.