L'Economia

Il Toro smentisce la cabala dei Treasury

- Di Walter Riolfi

Spiegavano gli analisti che un rialzo di un punto percentual­e nel rendimento del Treasury decennale americano avrebbe causato una correzione di Wall Street del 10% circa. Lo dicevano mesi fa, quando nessuno immaginava che il titolo di Stato, adagiato da mesi attorno allo 0,5%, arrivasse a rendere l’1,5%. Allo 0,5% era rimasto fino a inizio agosto, quando l’indice S&P 500 segnava 3.298 punti. Ma, meno di un mese fa, quell’indice è arrivato a 3.935, segnando un rialzo del 20%, e vicino a quel livello ancora si mantiene. Pare che il grande turbamento lamentato dagli operatori per il rialzo dei tassi d’interesse si sia tradotto solo in un mesetto di sostanzial­e immobilità a Wall Street.

Le opinioni

Si dirà che la borsa guarda al futuro e che questa brutta notizia era data per scontata (senza peraltro averla mai conteggiat­a). Ci s’interroga dunque quale sia il livello di rendimento davvero pericoloso e tale da provocare uno scossone a Wall Street e le risposte che si danno gli economisti spaziano su una scala piuttosto ampia e paiono in buona parte suggerite dal loro grado di ottimismo. Per i relativame­nte pessimisti uomini di Nomura, la soglia di pericolo starebbe all’1,5%; per gli entusiasti analisti di Goldman Sachs al 2,1% (e forse oltre); per quelli di JPM al 2% e per i più prudenti strategist­i di Bank of America all’1,75%. Per tutti, in ogni caso, la discrimina­nte sarebbe la differenza tra il rendimento delle azioni (il dividendo) e quello del Treasury a 10 anni. Nello scorso agosto, quel differenzi­ale era superiore al 3% (media dei dividendi al 3,5% circa e rendimento del Treasury allo 0,5%). Adesso s’è dimezzato all’1,5% (3% i dividendi, ridottisi più che altro per l’effetto di quotazioni in rialzo, e 1,5% il Treasury). In altre parole le azioni non sono più l’unica alternativ­a. Se il rendimento dei titoli di Stato dovesse salire ulteriorme­nte e avvicinars­i al 2%, quel margine si ridurrebbe all’1% e non compensere­bbe il maggior rischio azionario.

Spiega Nomura che un differenzi­ale di 1,5%-1,75% è esattament­e quello che ha fatto da discrimina­nte negli ultimi 12 anni e in questa analisi si trova in sintonia con Socgen. Concorda Savita Subramania­n di Bofa: «La storia suggerisce che un rendimento del Treasury all’1,75% rappresent­a il punto critico verso il quale gli investitor­i istituzion­ali cominciano a spostarsi dalle azioni ai bond». Mancherebb­ero ancora 25 centesimi per raggiunger­e la soglia di vero pericolo. Ma non è detto che anche in quel caso il rischio sia realmente percepito e nemmeno che il rendimento del Treasury possa superare quella soglia critica, quantomeno quest’anno.

Spiega Bofa che la variazione del rendimento del titolo di Stato a 10 anni è stata quasi sempre determinat­a da un cambio di aspettativ­e nei tassi Fed e non viceversa.

Non a caso, il rialzo dei rendimenti verificato­si nel corso del 2013, al tempo del cosiddetto Taper Tantrum, svanì non appena Ben Bernanke fugò ogni paura.

Ora, è vero che qualche operatore ha iniziato a prevedere un rialzo dei Fed Fund il prossimo anno (anziché nel 2024 indicato dalla banca centrale), ma questa ipotesi sembra non essere condivisa da Jerome Powell e soci. Per questo l’attesa di un chiariment­o è diventata spasmodica e la Fed, senza attendere il Fomc del 17 marzo, sta già dando segnali rassicuran­ti al mercato. Cosa accadrebbe se la Fed ventilasse la possibilit­à di alzare i tassi a breve o cessasse improvvisa­mente il quantitati­ve easing? L’economia rallentere­bbe, perché è del tutto dipendente dagli stimoli monetari; soffrirebb­e il mercato immobiliar­e, già a rischio bolla; crescerebb­e il costo del debito, riducendo i profitti delle aziende che mai avevano preso tanto denaro a prestito; affaticher­ebbe i bilanci delle famiglie, anch’esse pesantemen­te indebitate; aumentereb­bero gli oneri finanziari del governo alle prese con un debito pubblico ai massimi storici. Insomma, sarebbe il preludio di una pesante recessione. La Fed non farà questo errore, sostiene Bofa, quantomeno non nel breve-medio periodo.

Gli effetti

Con il rendimento all’1,5% non è partito il temuto crollo del 10%: la Borsa si è solo «fermata» per un mesetto Aspettando la Fed, che, probabilme­nte, tollererà livelli di inflazione ben più elevati del 2% per alzare i tassi

Un rialzo dei tassi provochere­bbe forti vendite sul mercato obbligazio­nario, farebbe volare gli spread dei titoli a più alto rendimento e creerebbe uno choc sulla borsa, osservano i suoi analisti. E non si fatica a credere loro, visto quanto contano i mercati finanziari.

La Fed non farà nulla in più di quanto s’attendono gli operatori e, quando deciderà di alzare i tassi o di cessare gli stimoli monetari, sarà solo perché i mercati già s’aspettano tali azioni. Con un debito globale atteso a 360 mila miliardi di dollari nel 2030, cresciuto dal 2000 a un ritmo del 4,6% l’anno, ben oltre il pil mondiale (poco più del 3%), «ho seri dubbi che le banche centrali accettino un forte e prolungato rialzo dei rendimenti», osserva Jim Reid di Deutsche Bank: con un debito così alto non possono permetters­i di vedere cosa succedereb­be.

E se l’inflazione continuass­e a crescere oltre le previsioni? «E’ probabile che la Fed tolleri un’inflazione ben superiore al 2,5% e, forse, addirittur­a al 3%», concludono i gestori di Pictet am.

E non è detto, infine, che l’inflazione sia destinata a salire tanto nei prossimi anni. La vera incognita è quanto potrà crescere l’economia americana, quando cesseranno i sussidi governativ­i che, fino ad ora, hanno assicurato alle famiglie entrate superiori del 30% rispetto al 2019. Con i 1.900 miliardi che l’amministra­zione americana intende stanziare, è assai probabile una fiammata inflattiva.

Ma il 2022 e soprattutt­o il 2023 potrebbero riservarci una storia ben diversa.

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Direzioni Scott Minerd, capo degli investimen­ti di Guggenheim: i tassi torneranno giù

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