Viaggio – In Italia
Langhe. Il mito svelato. Visitare il territorio in compagnia di Fiammetta Fadda
PASSEGGIATE TRA I VIGNETI, ASSAGGIATE I VINI E LA CUCINA DI RUSTICHE PIOLE E GRANDI RISTORANTI IN COMPAGNIA DI FIAMMETTA FADDA PER SCOPRIRE I SEGRETI DEL TERRITORIO PIÙ GOURMET D’ITALIA
Le Langhe sono una terra di misteri. Il primo è capire dove cominciano e dove finiscono. Nel senso: ci sono, nominalmente, le Langhe, il Roero e il Monferrato. L’Unesco nel 2014 li ha uniti in un mazzo eccellente dichiarandoli, tout court, Patrimonio dell’umanità. Ma non è così semplice. L’unica cosa certa e condivisa è che il «cuore» ruota intorno ad Alba. Ciò detto, il percorso sulla cartina è un dentro e fuori continuo, con sconfinamenti. Anche personali. Per esempio: Santo Stefano Belbo (Cesare Pavese, La luna e i falò, Racconti e altre letture affascinanti) è nel Monferrato o nella Langa Astigiana? Guarene è ancora Roero o è già Langa? Dipende dalla persona a cui lo chiedete.
La risposta tecnica, che nulla chiarisce, è che le Langhe sono un territorio, non uno spazio burocraticamente definito come una provincia o una regione. Poi ci sono le divisioni interne: Murazzano (leggi famoso formaggio) è in Alta Langa (la quale si trova in basso, a sud, dove comincia la dorsale appenninica che divide il Piemonte dalla Liguria), mentre Vezza, a nord, è in Bassa Langa. Per di più, gli abitanti non si amano. Quelli del «cuore« si definiscono langaroli, e chiamano «langhetti», contadini e un po’ furbetti, quelli ai confini.
Noi ci siamo concentrati sulla Langa indiscussa, disegnando un percorso a triangolo che suona così: Alba, Serravalle, Serralunga, La Morra, Cervere. Una settantina di chilometri che si snodano lungo il celebrato mare di colline, pieno di «balconi» dove fermarsi ad ammirare.
E a capire il secondo mistero di Langa, e cioè perché il tartufo bianco, il Tuber magnatum Pico, che cresce anche altrove, in Toscana, in Emilia, nelle Marche, lì sia impareggiabile. Il paesaggio aiuta il mito: cuscini di nebbia, vallate umide popolate da noccioli, betulle, pioppi, salici, dalle cui radici il tartufo prende il suo nutrimento sotterraneo restando fedele a ciascuna. Perché il Tuber magnatum, contrariamente alle altre varietà, non si lascia coltivare e deve essere «cavato», dal simbiotico duetto costituito dal trifolau, che ne annota le coordinate su un suo taccuino segreto, e dal suo tabui, i cani di incerta origine e di naso allenato e finissimo che lo scovano quando è maturo. Dal tardo autunno a fine dicembre.
«Ma c’è chi lo chiede anche ad agosto», dicono ad Alba, dove hanno dovuto anticipare l’apertura della Fiera al 7 ottobre per soddisfare le pressanti (e ignoranti) richieste. Perciò bene ha fatto chi ha saputo attendere, perché adesso è migliore e costa meno. Cioè, a spanne, 350 euro all’etto anziché 500, ma ne bastano 10 grammi per essere felici.
Anni fa, quando la tartufomania bianca non era ancora scoppiata, Richard Geoffroy, lo chef de cave di Dom Pérignon, è venuto in Langa per conoscerlo. Quando il tartufaio ha aperto il suo cartoccio, l’esplosione dei profumi è stata tale che Geoffroy si è coperto di pelle d’oca, come per uno spavento.
D’altra parte «tartufo d’Alba» è ormai un nome utopico, e le truffe abbondano. Il bianco pregiato somiglia molto al bianchetto, un suo cugino povero che matura da febbraio ad aprile col quale viene spesso confuso dai nasi poco esperti, ingannati dal fatto che il suo odore è riproducibile chimicamente e ne basta una goccia per creare l’illusione. L’Ente Fiera (fieradeltartufo.org) però è molto agguerrito e, oltre a pubblicare un vademecum conoscitivo, ha messo a disposizione una postazione a cui rivolgersi per consigli e controllo qualità (tuber.it).
A questo punto vale la pena di percorrere via Vittorio Emanuele ad Alba con le vetrine di Tartufi Ponzio, di Ratti, di Clemente Inaudi, dell’Antica Bottega del Tartufo e, arrivati in piazza del Duomo, scegliere tra due diverse tappe di gola, una informale, l’altra di alto profilo. La
Piola (lapiola-alba.it) è la trattoria sulla cui lavagna da quando è nata, dodici anni fa, sono scritti i venti piatti più importanti della cucina langarola. Sono la bandiera della «Rivoluzione Ceretto», terza generazione di vignaioli di Langa, i quali hanno iniziato dal salvataggio delle ricette che stavano per andare perdute, per proseguire, spiega Bruno Ceretto, con la «sfida a Parigi», con l’apertura del ristorante Piazza Duomo (piazzaduomoalba.it) e la
scelta di Enrico Crippa, il cuoco che in pochi anni ha conquistato le tre stelle della Guida Rossa e oggi è presidente della squadra italiana per il Bocuse d’Or.
Crippa fa una cucina raffinata, depurata, che si ispira all’universo verde, simboleggiata dalla sua famosa «Insalata 21...31...41...51...», cioè il numero di erbe, foglie e fiori che ne fanno parte in base alla stagione. Piatto impensabile se il cuoco non avesse alle spalle un mecenate, che gli ha «regalato» due ettari di orto e di serre. «Non so quanto mi costa, ma non importa», dichiara Bruno Ceretto, che ha la vista lunga. Cominciando dal vino e dal buon cibo è arrivato alle strutture d’arte sparse nelle vigne di proprietà ma godibili da tutti: la Cappella del Barolo sul vigneto di Brunate, ricreata da Sol LeWitt e David Tremlett, il Cubo di vetro, a Bricco Rocche, l’Acino nella Tenuta Monsordo Bernardina.
L’anno scorso ad Alba sono stati 110mila i visitatori della Fiera del tartufo e 600mila le presenze sul territorio; quest’anno c’è un concentrato di eventi, dalla mondanissima asta al castello di Grinzane Cavour il 12 novembre, in diretta con Hong Kong e Dubai, a Roero Vip a Vezza d’Alba, dal 18 al 26 novembre, dove saranno esposte le eccellenze di Langa, con seminari conoscitivi fino alla Wine Tasting Experience, organizzata da Strada del Barolo e grandi vini di Langa, tutte le domeniche (winetastingexperience. it). Ma non è sempre stato così: «Negli anni Settanta per spiegare agli americani dove sono le Langhe e vendergli il Barolo, dicevo che sono tra Montecarlo e Venezia, tra Grace Kelly e le gondole. Adesso un ettaro di vigna a Barolo costa più di un appartamento in piazza del Duomo a Milano», sorride Bruno Ceretto.
«Esageruma nén», non esageriamo, riassume, in dialetto piemontese, la passione condivisa per i toni smorzati
Il Barolo è il terzo mistero di Langa, analogo a quello dei grandi cru di Borgogna e del Médoc, frutto dell’alchimia tra la terra, il clima, cioè il «terroir» dei francesi, e la sapienza del vignaiolo. Per approfondirlo è il momento di salire «in terrazza», a Madonna di Como, alla Locanda del Pilone (locandadelpilone.com) lungo i filari di nebbiolo dei Boroli, già famiglia di grandi editori, arrivati qui vent’anni fa per hobby e diventati vignaioli convinti. Persino gli storici barolisti di Langa hanno preso in simpatia il giovane Achille Boroli, che confessa: «È solo dal 2012 che ho capito che volevo concentrarmi sul Barolo e tirare fuori da ogni cru il suo carattere». L’ultimo acquisto, il cru Brunella a Castiglione Falletto, ha le vigne che guardano tutti i punti cardinali, con vendemmie separate per ottenere un vino di grande eleganza.
E con lui altri arrivi più o meno longevi: la cantina Crissante Alessandria, dal 1958; 460 Casina Bric nata nel 2010; Réva, di proprietà dell’imprenditore ceco Leke, con relais, ristorante e campo da golf. Adesso i Giacosa, i Conterno, i Mascarello, i Voerzio, i produttori i cui nomi e le cui bottiglie hanno rappresentato uno straordinario biglietto da visita nel mondo, guardano con simpatia a questa nuova generazione costruttiva ed entusiasta che è riuscita ad allargare l’interesse anche ai tre fratellini minori: il Dolcetto col suo sapore di viola, la Freisa che profuma di rosa, la Barbera che ricorda i frutti rossi.
Un salto enorme, se si pensa alla casta chiusissima dei vecchi leoni, il cui rappresentante leggendario è Giuseppe Rinaldi
(barolodibarolo.com), soprannominato Citrico per l’eloquio abrasivo, la cui cantina, che data dal 1890, è un mondo a sé in cui convivono vini sublimi, cultura, un angolo per il restauro delle motociclette di cui è appassionato, pareti tappezzate di quadri. A domanda, risponde: «Parlare ancora di vino,
che noia», il che spiega anche perché fino a poco tempo fa Barolo e Barbaresco, l’altro mito di Langa, fossero vini più rispettati che bevuti.
Anche la Locanda del Pilone, con le sue otto camere, rappresenta il nuovo corso: quello degli alberghi di qualità, prima vistosamente carenti e adesso numerosi. Al ristorante la scelta è caduta su Federico Gallo, un cuoco giovane, un po’ torinese e un po’ toscano, che usa il canovaccio dei sapori tradizionali con qualche sconfinamento affettivo: «I miei plin ai tre arrosti hanno l’anima carnosa dei toscani; gli gnocchi sono piccoli e tosti anziché grandi e avvolgenti; il piccione lo cuocio al sangue», dichiara provocatorio e pronto alle sfide in arrivo, dato che il 23 novembre ci sarà una cena in onore di Château Palmer e a dicembre di Château Cheval Blanc. Naturalmente qui gli chef hanno vita facile perché dovunque si girino, trovano meraviglie: nei campi, cardi gobbi amorevolmente piegati sotto una coltre di terra per diventare bianchissimi e teneri, porri, cipolle, topinambur croccanti; in macelleria, le carni, destinate ai bolliti, della vacca fassona, detta «del triplo culo» per il derrière ghiottamente sviluppato; grasse tome di pecore presidiate da Slow Food in arrivo da Murazzano; ettari delle famose nocciole trilobate, protagoniste della crema gianduia e di torroni, biscotti, torte…
Di fatti sono coperte di noccioleti le vallate che si percorrono diretti a Serralunga per vedere come un altro ragazzo non ancora trentenne, Andrea, figlio di Oscar Farinetti, che non a caso è nato a Barbaresco, guida con rispetto pari all’entusiasmo la nuova vita delle cantine di Fontanafredda (fontanafredda.it) in quello che era il castello di campagna dove la Bella Rosina, prima amante e poi moglie morganatica insignita del titolo di Contessa di Mirafiore, attendeva Vittorio Emanuele per il weekend. Ci sono: il Parco Narrante, una serie di cartelli esplicativi che conducono attraverso la tenuta; la fondazione E. (sta per Emanuele, figlio della Bella Rosina) di Mirafiore, con la Libreria tematica, le Isole del gusto, il Teatro aperto a tutti. Ci sono da visitare le cantine ottocentesche con le enormi botti per i rossi, affiancate dai tini in acciaio per i bianchi e gli spumanti; c’è l’albergo con 14 camere e due cascine in via di ristrutturazione. Soprattutto c’è, nelle stanze che respirano ancora l’Ottocento della Bella Rosina, la cucina del ristorante Guido, (guidoristorante.it) dove Ugo Alciati ha ereditato la mano della mamma Lidia, maestra indiscussa della cucina di tradizione piemontese, i cui piatti si ritrovano oggi nel menu: vitello tonnato; agnolotti al tovagliolo (perché hanno come unico condimento il vapore della pentola protetto da un tovagliolo); tajarin ai «40 rossi» col tartufo; finanziera; capretto all’acciuga; meringa al gianduia e zabaione. A breve, nelle vecchie dispense, sarà aperta La taverna del re, giovane e informale dove con una trentina di euro si potrà assaggiare un intero menu piemontese, dall’antipasto «in condivisione» al dolce.
In passato il tartufo era considerato il cibo delle streghe, un organismo animale, un minerale