Storie di famiglia
Lo sostengono i Savini, famiglia che da quattro generazioni scova nei boschi profumati tesori. Un successo iniziato su una Vespa. E proseguito tra segreti e un Guinness dei Primati
Il tartufo è intelligente. I tesori dell’azienda Savini
Nei boschi vicino a Forcoli, nel Pisano, risuona continuamente un nome: Giotto. Tra querce e lecci, sbuca un cucciolo di lagotto romagnolo, molto giocherellone. Non è un maestro della pittura medievale ma anche lui ha un grande talento, scovare, con il suo naso finissimo, uno dei più ambiti gioielli del bosco, il tartufo. È mattina e sto partecipando alla mia prima «truffle experience», ovvero una caccia al tartufo. A guidare un gruppo di neofiti meravigliati c’è Luca, collaboratore di Cristiano Savini, quarta generazione di una famiglia che su questi funghi prelibatissimi ha fondato il proprio mestiere. Cristiano, con pazienza mista a una certa inquietudine, segue le peripezie di Giotto jr. «Vedete? Qui sono già passati i cinghiali», ci mostra indicando una buca e coprendola «altrimenti le radici degli alberi si seccano e addio tartufi del futuro. Quest’anno, in ogni caso, ce ne sono pochi», osserva. «La scorsa estate è stata molto arida e questo, insieme agli sbalzi di temperatura degli ultimi anni, non aiuta. Per fortuna che il tartufo è un fungo intelligente». Addirittura? «Certo, si sta adeguando ai cambiamenti climatici. Si evolve, come tutte le specie,
ed è espressione del territorio: cresce solo in luoghi incontaminati». Quando ha trovato il suo primo tartufo? «A sei anni, con Stella, uno dei cani migliori che abbiamo mai avuto. Ricordo l’eccitazione e il profumo, come fosse ora». Che cosa serve per trovare i tartufi? «Il cane giusto. Un tartufaio ha un rapporto quasi simbiotico con l’animale. Prima di Giotto jr, c’era Giotto senior, un campione assoluto. Mi capiva al volo. Le faccio un esempio: quando tornavo a casa di cattivo umore, il cane se ne accorgeva subito e non mi veniva nemmeno incontro. Mia moglie no (ride, ndr)». Come si riconosce il cane più adatto? «Alcune razze sono più portate, come i lagotti o i bracchi. Sin da piccoli li alleniamo a cercare. Le mammelle della madre, secondo l’usanza, vengono anche massaggiate con un minuscolo pezzo di tartufo per abituare la cucciolata all’odore». Sul mondo dei tartufi spesso aleggia una sorta di mistero. «I tartufai sono una specie di “carboneria”: nessuno sa da dove spuntano questi tartufi. Per questo ho pensato di coinvolgere le persone nella caccia al tartufo. Nel 2007 abbiamo trovato, sotto una quercia millenaria, un tartufo bianco enorme (circa 1 chilo e 300 grammi), e siamo finiti nel Guinness dei Primati. Hanno iniziato a scriverci, tutti volevano venire qui. Ho capito che dovevo chiarire un paio di cose». Per esempio? «Il tartufo mica si trova solo a novembre, come pensano in tanti, ma tutto l’anno, salvo una flessione a maggio. E non esiste solo il tartufo bianco. Ci sono ben 9 tipologie di tartufo. Ognuna ha una stagione e piante di riferimento. Qui siamo a 35 km dalla costa e a 70 dagli Appennini. In 100 km di raggio si riesce a trovare di tutto, dal bianchetto o marzuolo, che è primaverile e cresce tra le radici di pioppi e pini marittimi, al bianco, che adora le querce, e si trova da settembre a dicembre. Non dimentichiamo il nero o scorzone, estivo». Altri miti da sfatare? «Piemonte e Toscana sono le regioni più produttive, ma il tartufo cresce quasi in tutta Italia. L’ideale è cercarlo in un terreno sabbioso, che lo fa crescere “coccolato”, non compresso, bello tondeggiante». Chi le ha trasmesso questa passione? «Mio padre Luciano, che da sempre si interessa anche di cucina. Ha dato una svolta internazionale all’azienda decidendo di lavorare i tartufi di scarto, non commercializzabili perché rotti, per ricavarne conserve, e aprirsi alla ristorazione, invece che delegare a terzi». Ad avviare l’attività è stato però suo nonno Zelindo. «Un uomo di tanta testa e poca fatica. Negli Anni ’20 era guardacaccia in una tenuta vicino a Palaia, che ispezionava con la sua Vespa. Andare a tartufi era considerato uno sport di serie B, per cacciatori mancati. Negli Anni ’70, gli esemplari sotto i 50 g venivano dati ai maiali. Oggi si vendono quelli dai 5 g, sopra i 200 g i tartufi si vendono a pezzi. L’attività nacque da una sua intuizione». Quale? «Durante i fine settimana la famiglia Gambacastelli, proprietaria della tenuta, organizzava dei banchetti per gli amici. Si mettevano in tavola interi panieri di tartufi. In molti, di nascosto, abbordavano mio nonno: “Zelindo, c’hai mica due chili di quei tartufi di ieri?”. Lui provvedeva. Gli scambi avvenivano nel retrobottega di un bar del paese, il Montanelli. Ci rimane il suo taccuino segreto». Ovvero? «Ogni raccoglitore segna una mappa su un quaderno, con le piante esatte e la tempistica per controllare la presenza dei vari tipi di tartufi. Si trasmette di padre in figlio in punto di morte». Che cosa è cambiato oggi? «Esportazioni in tutto il mondo, tre ristoranti, a Firenze, Milano e Roma, dei corner per la degustazione e l’acquisto delle specialità, nei principali aeroporti italiani. Dal 2014 collaboriamo col sito di e-commerce francese vente-privee.com, con cui organizziamo vendite di tartufi freschi e conservati. La prossima? Ad aprile». Dal bosco al web? «Sì, la tecnologia ci permette di raggiungere tutti velocemente. E di insegnare come degustare questo tesoro del bosco. In molti non sanno per esempio che non va cotto, e va consumato entro cinque giorni dalla raccolta perché una cosa non bisogna dimenticarla: il tartufo è vivo».