Il ristorante
Riapre a Parigi L’Écrin, un tempio della gastronomia francese. Racconto di un’esperienza che vale il viaggio
Una cena a palazzo. A Parigi all’Hôtel de Crillon
Sul menu è riportata la frase di Cristoforo Colombo: «Non siamo mai così lontani come quando non sappiamo dove stiamo andando»
Mi ricordo del Crillon prima della grande ristrutturazione. Ci ero andata a intervistare un’attrice cinese che nessuno conosceva. Allora, l’albergo scricchiolava, si respirava una grandeur un po’ sbiadita e poi c’era stato quell’episodio di Madonna, all’epoca in piena carriera, che si diceva avesse lasciato il palace perché non era contenta del servizio (avevano finito l’Evian...).
In ogni caso, oggi, dopo quattro anni di ristrutturazione, gestito dal gruppo Rosewood Hotels and Resorts, l’Hôtel de Crillon è stato restituito alla città insieme al suo ristorante salotto L’Écrin diretto dallo chef Christopher Hache. Il luogo è l’assoluto della «pariginite» già dal suo indirizzo, place de la Concorde, che insieme alla Bastille è il più emblematico della città. Hanno ghigliottinato proprio davanti all’entrata del palazzo il Re Luigi XVI e la consorte Maria Antonietta nonché Madame du Barry. E quando ci si avventura nella hall, ci sono sempre le grandi folle come in un romanzo di Émile Zola, la cristalleria e le vetrine scintillanti colme di alta pasticceria di Jérôme Chaucesse (che propone anche deliziose cioccolate calde nella sala da tè). Una volta varcata la soglia de L’Écrin, i brusii si spengono, la moquette è soffice, gli specchi alle pareti fumé, le voci diventano sospiri e bisbigli, famiglie, coppie, uomini d’affari, il mondo è variegato.
Che il pasto abbia inizio
Sulla tavola un unico bicchiere da vino della cristalleria Saint-Louis, panciuto quasi come quelli da Cognac e senza piede, resta curvo sulla tovaglia candida con la sensazione che il vino uscirà, «perché così piaceva a Marie Antoinette, madame», dice il cameriere, «il bicchiere senza gli steli di sostegno». All’interno la mineralità sontuosa dello Champagne di Henri Giraud. Il menu che giunge poco dopo è una missiva arrotolata come un messaggio di un ambasciatore di altri tempi (o d’amore?) e riporta parole di Cristoforo Colombo: «Non siamo mai così lontani come quando non sappiamo dove stiamo andando».
Christopher Hache ha viaggiato molto negli anni dei lavori e ritorna con una valigia piena di sapori, soprattutto tra Kyoto, Madrid, Napoli. Si inizia dagli amuse-bouche, tapioca e formaggio (Brasile), gyoza (Giappone), tartare di orata (Perù). È stato anche in Italia, che omaggia con Tomate, la quintessenza del cuore di bue che racchiude a sua volta crema di basilico e di aceto balsamico e il tocco ironico di una mollica per fare la scarpetta. Osiamo. Accompagnato da sakè tiepido. Ho l’estate sul palato, non importa se fuori piove, per un attimo sono teletrasportata in un’altra stagione. Mi manca solo la pétanque per stare in tema e sentirmi in riviera. È un trionfo d’autunno invece il piatto chiamato semplicemente Champignons de Paris.
Poche parole ma chiare
Già, perché il menu non si perde in fronzoli, una linea, una sensazione e via. Lo chef propone il sapore della terra e la freschezza umida del bosco, il tutto in un piatto che sembra una scultura porosa, la cappella di un fungo.
Una nuvola in bocca, la sensazione di scivolare dolcemente sulla terra umida. Ogni volta che bevo un sorso di vino ho la percezione che il bicchiere pesi meno di un grammo, come se il nettare viaggiasse senza bisogno della mediazione del mio braccio. Sul tavolo due burri de baratte fatti in cucina. E ancora arriva la Tourtatouille con un jus che sembra di carne, in realtà è 100% vegetale e ancora Langoustine, lo scampo laccato nell’acqua di molluschi, il Soufflé definito nel menu théâtral che finisce di cuocere a tavola in un bicchierino di fattura giapponese. E il caffè proveniente da Panama di qualità Geisha perché ne producono solo 30 kg per tutta la Francia. Sarà, ma a conclusione della serata l’unico pensiero che mi ronza in testa è che Parigi val sempre una cena.