GENTE DI UNA CERTA PASTA
Dietro a un colosso dell’industria alimentare italiana ci sono tre fratelli. Ma di loro si sa poco perché, dice Luca Barilla, «si parla solo quando si ha qualcosa di importante da dire». In fondo la storia si fa con i fatti. E con un paio di miracoli
A cura di SARA TIENI, Foto GIACOMO BRETZEL
Arrivo agli stabilimenti della Barilla a Pedrignano, vicino a Parma. L’atmosfera fa molto «industria». I silos per il grano, i magazzini infiniti, gli uffici. Siamo nel quartier generale del marchio, leader mondiale per la produzione della pasta, uno stabilimento da 1,2 milioni di metri quadrati: il più grande esistente. Di familiare, penso, si respira poco. I numeri dell’azienda (8420 dipendenti nel mondo, 1.800.000 tonnellate di prodotti che arrivano sulle tavole di tutto il pianeta, per 13 marchi, tra cui Mulino Bianco, Voiello e Pavesi, 28 unità produttive per 3413 milioni di euro di fatturato) mi tornano in mente come le tabelline prima di un’interrogazione alle elementari: con una certa ansia. Dobbiamo incontrare Luca Barilla che gestisce, con i fratelli Paolo e Guido e l’amministratore delegato Claudio Colzani, il gruppo di Parma. Nell’attesa di Luca, ci ripetono i suoi impegni per la giornata. Arriva l’interessato e iniziano le sorprese. Al posto di un capitano d’industria con agenda-cronometro, si affaccia un uomo dai toni pacati che esordisce con un disorientante: «Sono Luca, piacere, a vostra disposizione per il tempo che volete». Membro della quarta generazione della Barilla, fondata da Pietro nel 1877 con una piccola bottega di pane e pasta, Luca, due figli, incarna senza forzature lo slogan più noto del marchio, quel «dove c’è Barilla, c’è casa», da anni nell’immaginario collettivo degli italiani. La chiacchierata si protrarrà per tutto il giorno tra la visita agli stabilimenti e un pranzo a base di pasta in formato 3D servito all’Academia Barilla, centro di eccellenza della cucina e della gastronomia del gruppo, che ha reso Parma una sorta di Silicon Valley del cibo. Luca, ha davvero tutto questo tempo? «Cerco di prestare attenzione. Quello che mi ha colpito di Roger (Federer, protagonista con lo chef Davide Oldani dell’ultimo spot del marchio, ndr) è che non guarda mai l’orologio. E che gli importa veramente di quello che gli dice la gente. Tanti altri invece fanno solo finta di ascoltarti. Un giorno è venuto qui
a sorpresa. Ha parlato con tutti, firmato autografi. Alla fine del pomeriggio ci ha salutato: «Devo essere a casa in tempo per mettere a letto i miei bambini». Sembra un’immagine da famiglia del Mulino Bianco, un ideale per cui siete stati anche criticati. Esiste veramente? «Io sono di parte (ride, ndr). Pensi che mia moglie lavorava nello sviluppo dei nuovi prodotti della Mulino Bianco. Ci ho messo mesi prima di decidere di corteggiarla. La vita è già abbastanza dura. Avere degli ideali aiuta. Mio padre Pietro diceva “date da mangiare alla gente quello che dareste ai vostri figli”. Da quel concetto noi fratelli siamo ripartiti: fare prodotti di qualità per il benessere delle persone e del mondo che le circonda». Che cos’altro le ha insegnato suo padre? «A parlare solo quando si ha qualcosa di importante da dire. Rilasciava poche interviste, anche se era un avido lettore di giornali. La sera commentavamo ad alta voce i pezzi di Indro Montanelli e di Enzo Biagi, suoi cari amici. Di noi fratelli sono quello che ha abitato più a lungo con lui: fino a 32 anni». Non dirà che era un «bamboccione»? «Tutt’altro. Più che altro con papà mi divertivo. Pratico e modesto, era anche un uomo aperto al mondo. Conosceva bene Mina, protagonista dei nostri spot, ed era tra i pochi a dare del tu a Enzo Ferrari. L’ingegnere teneva la gente a distanza. Eppure da mio padre si faceva abbracciare: si rispettavano». A riacquistare l’azienda, ceduta in parte al gruppo americano W.R. Grace nel 1971, fu proprio suo padre. «Mio zio negli anni ’60 vendette le sue quote. Fu un momento buio per mio padre. Poi, contro il parere di tutti si indebitò, ma nel 1979 tornò in possesso della sua azienda. Fu uno dei suoi due miracoli». L’altro qual è? «Riconquistare la mamma: lei lo lasciò che Guido, Paolo e io eravamo piccoli. Ci mise anni, ma tornarono insieme. Fu allora che nacque mia sorella Emanuela. Aveva il mito della famiglia unita. Ed era sempre un passo avanti». Come si anticipano i tempi? «Con la ricerca. Guardi lo spaghetto n. 5: ne vendiamo 2 milioni di quintali all’anno. Sembra sempre uguale, invece lo miglioriamo continuamente. Negli anni ’50 riuscimmo a ottenere dalla federazione pastai quello che nel ’67 divenne legge: che la pasta fosse fatta solo con grano duro».
Da biologica: poco avete perché debuttato solo ora? con la pasta «I che nostri devono prodotti, superare, con biologici tutti i controlli lo sono già da tempo. rassicurazione». Questa, se vuole, è un’ulteriore Con a togliere Mulino l’olio Bianco di palma, siete tanto stati tra discusso. i primi Questione di marketing? «Di coerenza. Diversi anni fa, non potendo produrre il nostro olio di palma e certificarne la qualità, avevamo iniziato a studiare, in tempi non sospetti, come sostituirlo nelle ricette senza alterare il gusto dei prodotti». Altri diktat? «La trasparenza. I nostri ultimi stabilimenti sono progettati sempre più per accogliere i visitatori». Sono virali i video in cui Bebe Vio, testimonial del marchio, intervista i vostri agricoltori. Alcuni stanno nei campi con il tablet: è reale? «Sì, certo. Con la tecnologia si coltivano prodotti sempre più sani. Bebe ci aiuta a spiegarlo alla gente. Grazie a lei combattiamo la disinformazione che c’è in rete». Anche Barilla è vittima di fake news? «Come no? Tra le peggiori c’è quella che usiamo uova liofilizzate. Ogni anno usiamo circa 24.000 tonnellate di uova e di queste l’80% sono di galline allevate a terra. Alla fine, parlano i fatti». Nel 2006 avete vinto il premio del Reputation Institute di New York per l’azienda con la miglior reputazione al mondo. Suona bene, ma che cosa vuole dire? «Che per esempio siamo stati i primi a permettere il telelavoro ai dipendenti. Per ogni neo genitore in azienda c’è l’asilo pagato. Crediamo che una buona impresa debba sostenere la comunità. Il nostro slogan non a caso oggi è “buono per te, buono per il pianeta”».
«Telelavoro e asili pagati per i figli di ogni dipendente: da sempre crediamo in un’industria che sostiene la comunità»