IL CIELO SOPRA TORINO
Sarà sempre più stellato? Le premesse ci sono: negli ultimi mesi si sono fatti strada giovani cuochi promettenti e nuovi ristoranti di design
Non fermatevi all’apparenza au‑ stera. Aprite porte, prendete ascensori, addentratevi. La To‑ rino di oggi sperimenta, orga‑ nizza festival di arte contem‑ poranea, cinema, libri, musica e tanto, tantissimo cibo. Ogni due anni ospita Terra Madre Salone del Gusto (20‑24 settembre, salonedelgusto.com), e quest’anno, l’11 e 12 giu‑ gno, vi si svolgono le finali europee del Bocuse d’Or, la più importante competizione tra i mi‑ gliori giovani chef, in gara per il titolo mondia‑ le di gennaio 2019 a Lione. Insomma, io tifo per la città sabauda. E spiego perché evitando tutte le sviolinate sul numero di start up, visionari, intellettuali, caffè storici, opere d’arte pubblica contemporanea come pochi altri posti in Italia.
Il futuro in una Nuvola
A giugno apre Nuvola, un progetto a cui Lavazza lavora da qualche anno per creare una nuova piazza, un museo e un ristoran‑ te, l’attesissimo Condividere, con Federico Zanasi come chef, Ferran Adrià come con‑ sulente e il premio Oscar Dante Ferretti alla scenografia, secondo la nuova tendenza di incaricare i professionisti di Hollywood per creare stage di vita quotidiana. ➝
Primo: fare la spesa bene
Il mercato di Porta Palazzo invece è un ritrovo storico, multietnico e affollato, con qualche venditore 2.0, come Beppe Gallina, considerato il migliore pescivendolo, senz’altro il più bello, che a pranzo prepara un cartoccio di fritto misto e pochi altri piatti. «I 15 euro meglio spesi di sempre», dice Adriano Marconetto, imprenditore e gran gourmet, aggiornato sui migliori indirizzi. Di lavoro si parla più volentieri a tavola. Perciò i free lance, che usano spesso i ristoranti come ufficio, sono ormai sapienti gastronomi, come una volta i camionisti. «Sull’altro lato della piazza c’è Hafa Storie, nato dalla collaborazione tra Christian Milone, stella Michelin alla Trattoria Zappatori di Pinerolo, e Hafa Café: tajine e trifula e altri abbinamenti tra piatti marocchini e classici torinesi».
Secondo tradizione
A proposito di classici, i ricorrenti sono: vitello tonnato, agnolotti del plin (ravioli di carne), tajarin (tagliolini di pasta fresca), brasato e bonet (budino di cioccolato agli amaretti). Evitarli in una spedizione torinese sarà impossibile, dalla trattoria all’alta cucina. Nel ristorante Del Cambio, il più antico della città, Matteo Baronetto, stella Michelin e vent’anni con Cracco, li propone doppi, in versione originale, stile Artusi, e moderna, «un po’ per ridimensionare il mito del passato, un po’ per dimostrare che oggi preferiamo pietanze più leggere». Il ristorante stesso è così, da un lato i velluti, gli stucchi e le dorature e il tavolo del Conte di Cavour sempre allo stesso posto; dall’altro i tavoli disegnati da Martino Gamper e gli specchi di Michelangelo Pistoletto. È sempre pieno, pranzo e cena, e così il bar sopra per l’aperitivo con jazz live e dj la domenica, e l’ex farmacia di fianco, dove si ordina tutto il giorno da un menu di pochi piatti e dolci da acquolina istantanea. «Sull’onda della bistronomia», dice Baronetto, «hanno aperto posti che non puntano solo sulla cucina, ma sull’accoglienza: servizio, posizione, atmosfera. Oggi conta l’esperienza, non solo quello che c’è nel piatto».
La nuova bistronomia
Un esempio è il bistrot di Cannavacciuolo, dove i passanti chiedono il permesso di fotografare l’insegna. Tranquilli: chiunque può fotografare una porta. Non è un altare, è solo il ristorante di un cuoco famoso in tv. C’è da chiedersi piuttosto perché non entrino e non si tolgano lo sfizio di una buona cena. È vero, non è economico, ma una volta all’anno si può fare, almeno per assaggiare quel «tonno vitellato» che ribalta la tradizione, con riduzione di fondo di vitello, maionese di bottarga e polvere di capperi, e un calice dei loro Champagne naturali e spumanti italiani.
Formazione e ispirazione
Più fedele alla categoria bistrot, anche nei prezzi, è La Limonaia di Cesare Grandi. Per diventare cuoco, ha finito la facoltà di Agraria, si è specializzato in scienze gastronomiche all’università di Slow Food, nella vicina Pollenzo, e studiato la cucina di Davide Scabin e Fulvio Pierangelini. «La mia musa però è la materia prima. Se il Gianni di Porta Palazzo dice che oggi ha uova d’oca e cime di rapa, le compro, poi penso a come cucinarle. L’altra fonte di ispirazione è la tradizione, che
è sempre meglio eseguire tal quale. Un esempio sintetico del mio percorso è il “Cardo e animelle di agnello”». Ma i suoi grissini salati sono una poesia.
Cibo di strada ma evoluto
Da Cesare mi accompagna Daniela Petrone, anche lei cuoca, pasionaria del mestiere. Gestisce il ristorante Laleo di Eleonora Guerini, ex curatrice della guida ai vini del Gambero Rosso e ora braccio destro di Francesca Moretti nella tenuta Petra a Suvereto. Ai fornelli solo donne, tra cui una ragazza nigeriana a cui insegnano il mestiere per un futuro più tranquillo; e nel menu poche cose, fatte al momento: zuppe, pochas, dorate, insalate e torte. «La “pocha”», spiega Daniela, «è una tasca di pane fatto da noi con farine macinate a pietra, e ripieno a scelta. La dorata è una palla di risotto variamente condito e fritto, da passeggio». Chi vuole però si può fermare a mangiare lì: pochi tavoli, tanti libri e riviste da sfogliare.
Buona hôtellerie=buona cucina
La location per un ristorante conta, eccome. E i due alberghi più belli della città, Turin Palace e NH Collection Torino Piazza Carlina, hanno dedicato uno spazio di riguardo ai rispettivi cuochi. Stefano Sforza, stage da Ducasse e interesse per fermentazioni e fiori edibili, prima di tutto sa fare il vitello tonnato e gli agnolotti come si deve. Poi si sbizzarrisce con piatti originali come il bianco e il nero di seppia, la pasta cotta in camomilla, e tè kombucha, abbinati per favorire il sonno. All’NH Carlina, il cuoco residente Alexandre Robles, peruviano, prepara anche ceviche e causa di patate, delle sue terre. I torinesi ci vanno, sperimentano volentieri le loro cucine fusion, con la garanzia però di trovare sempre i piatti del cuore.
Vegetariano in grattacielo
Posizione strepitosa è quella di Piano35, in una serra bioclimatica a 150 metri, nel Grattacielo Intesa Sanpaolo di Renzo Piano. Il ristorante è stato concepito con l’università di Pollenzo, dove si è laureato Fabio Macrì, uno dei pochi cuochi in Italia a proporre un menu degustazione vegetariano, compresi i plin di ricotta con burrata di bufala locale. «Era un esperimento ma, visto il successo anche tra gli onnivori, lo manteniamo, pur continuando a fare la gricia», commenta Macrì. Un po’ più in su, c’è il bar gestito dal campione mixologist Mirko Turconi, che serve i drink con libri di pirati da guardare. Ma l’avventura è trovarsi a quell’altitudine, sospesi tra una giungla di impalcature e finestre che guardano fino alle Alpi.
Mangiare è un’arte
Alla Fondazione d’arte di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, il figlio Emilio ha creato Spazio7, un ristorante di cui si parla molto a Torino, grazie alla crescita esponenziale di Alessandro Mecca, trentenne talentuoso, figlio di ristoratori, che parte da una semplice scaloppina, la condisce con «burro» estratto dal sugo d’arrosto e la sala con il caviale. «Togliamo il superfluo e lavoriamo su tecnica e forma, come le opere che ci circondano». Così nascono piatti come il porro ricostruito, che sembra appena colto ma è frutto di un lungo processo di trattamenti, e il voluttuoso Rossetto e cioccolato, un gelo di frutti rossi su cioccolato e lampone liofilizzato.
Fornelli in affitto
Il progetto di Marco Brignone, imprenditore settantenne, è ambizioso: applicare al food&beverage concetti come il coworking e la sharing economy. Ha acquistato lo stabilimento di Incet alla
periferia di Torino, e con l’aiuto di un acceleratore è nata la start up EDIT (Eat Drink Innovate Together), con vari ristori nello stesso spazio: bakery-caffè stile Starbucks; birrificio sperimentale per chi vuol cimentarsi nell’arte della pastorizzazione, con menu firmato dal pizzaiolo-celebrity Renato Bosco e da Pietro Leemann, unico stellato italiano di cucina vegetariana. Il ristorante è affidato ai fratelli Costardi, una stella Michelin al Ristorante Cinzia di Vercelli, che propongono i loro piatti forti, come il risotto in lattina che beffeggia le dozzinali zuppe Campbell’s. Si mangia intorno alla cucina a vista, al tavolo social o nel privé tra una pioggia di cristalli luccicanti. Di accompagnamento si ordinano i cocktail gastronomici di Barz8, studiati da Salvatore Romano e Luigi Iula. Infine c’è uno spazio con quattro cucine «condivise» da affittare per sperimentazioni d’ogni sorta, e presto saranno inaugurati i loft di design per affitti brevi.
Come a casa (quasi)
La prima start up torinese è stata Eataly, dieci anni fa. Moltiplicati i negozi in Italia e nel mondo, resta un modello attuale, con il supermercato di qualità, cibo di strada e ristorante stellato, che a Torino è Casa Vicina, affidato a una famiglia di ristoratori da cinque generazioni. «Siamo cresciuti in una cucina casalinga. Noi l’abbiamo resa solo un po’ più tecnica», dice Claudio Vicina, ora ai fornelli. Per esempio, la bagna cauda è servita in un bicchiere da vermut da cui traspaiono in strati colorati gli ingredienti: barbabietola, cavolfiore, carota, zucchina e peperone tostato e sopra un ragù freddo di acciughe del Cantabrico emulsionate con purè di aglio, passata di pomodoro e olio, tutto cotto a bassa temperatura.
L’outsider
Nella schiera dei trentenni che stanno rivitalizzando la scena gastronomica torinese c’è anche Christian Mandura. Il ristorante è il Geranio, della mamma, che a pranzo cucina per i commessi viaggiatori alla periferia di Chieri. La sera entra in scena Christian che, dopo le esperienze a Copenaghen, è tornato con idee di foraging e cucina vegana. «È un predestinato», sostiene l’amico Adriano Marconetto che mi ha portato da lui. Presto aprirà anche in centro, dove già organizza cene-evento a Palazzo Saluzzo Paesana. Scommettiamo che di lui come degli altri sentiremo parlare molto?