Come si mangia a Trieste La bella (non più) addormentata
LA BELLA (NON PIÙ) ADDORMENTATA
Non una ma tre. Di mare, di terra, e asburgica. Tante sono le cucine da sperimentare in una città dove la fusion è di casa. Fiammetta Fadda in missione racconta, assaggia, raccomanda
Da sempre mi chiedo perché agli italiani, ma non solo, sembra che l’Italia finisca a Venezia anziché continuare fino allo splendore di Trieste. Prendete, per dire, le due piazze che «fanno» le due città. Venezia col fasto orientaleggiante di San Marco, Trieste col lusso laico e austroungarico di Piazza dell’Unità; Venezia aperta sulla mollezza della Laguna, Trieste spalancata sulla luce del golfo; tutte e due con due caffè che si fronteggiano, il Florian e il Quadri a Venezia, gli Specchi e l’Harry’s a Trieste. A chi la palma della bellezza? Dipende dai gusti. Quanto a bar, però, Trieste ha almeno una marcia in più. Primo, perché standosene comodamente seduti si contempla il mare aperto come si fosse in barca; secondo, perché l’Harry’s è dentro i Duchi d’Aosta, il grand hotel che ha fatto la storia della città, dove hanno soggiornato tutti quelli che contano, da Nelson a Casanova, a Sting, ad Abbado, a Noor di Giordania. Potremmo persino avanzare l’ipotesi che quando nel 1972 Arrigo Cipriani aprì l’Harry’s Grill «restaurant & café» nell’albergo appena ristrutturato, lo abbia fatto per l’ambizione di duplicare il suo celebre angoletto veneziano (in origine un deposito di cordami), nella grandeur di un hotel famoso davanti a una piazza mozzafiato. Un luogo d’incontro avant-garde, aperto dalla prima colazione alla cena, quando ancora nessuno pensava che quella formula sarebbe diventata un trend vincente quarant’anni dopo.
Adesso all’Harry’s è da poco arrivato con la sua équipe lo chef Matteo Metullio, triestino, trentenne, bistellato alla Siriola in Alta Val Badia, che ha aperto al bistrot di qualità e alla cucina del chilometro «vero» anziché «zero»: «Voglio dar da mangiare un vitello tonnato, dei rigatoni cacio e pepe, una milanese da far esclamare: sono buoni da paura!». Senza fiocchi e controfiocchi. Per quelli, c’è l’Harry’s Piccolo, solo quattro tavoli, dove fa una cucina contemporanea ricercata: Battuto di gamberi rossi, ricci di mare, rafano, chips di riso alla liquirizia; Risotto all’acqua di pomodoro, plancton, capperi, acciughe e basilico; Crumble al cacao, gelato al cioccolato salato, cremoso alla menta su bisquit al cioccolato.
Ma, allora, perché Trieste non incontra?
Perché è faticosa da raggiungere, dice chi ci viene per lavoro. Perché non ha una personalità gastronomica definita, sentenziano i buongustai. «Perché è una città postindustriale alla ricerca di una nuova vocazione», conclude Riccardo Illy, triestino doc, produttore del noto caffè, due volte sindaco, poi presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia. Adesso però la città è in fermento per arrivare pronta al 2020, quando sarà capitale europea della scienza e, contemporaneamente, Fiume, a un’ora d’auto, sarà capitale europea della cultura. L’aeroporto ha intensificato i voli; la famosa terza corsia autostradale procede a tappe forzate; l’attrazione commerciale per le start up scientifiche, in una destinazione che vanta una delle più alte concentrazioni di scienziati in Europa, è alta; la nuova «via della seta», verso Oriente, sarà sempre più marittima. Però, ammettiamolo, c’è un ma.
Nel programmare un fine settimana o una vacanza, se non amate l’azzardo è d’obbligo un accurato esame del meteo locale. Perché sulla bellezza della città incombe la minaccia della bora, il vento di est-nord-est in diretta dalla Russia. C’è quella scura, con cielo cupo, e quella chiara, con cielo terso. Possono soffiare senza sosta anche per due, tre settimane scuotendo le finestre, sollevando di peso gli incauti, facendo strage di ombrelli e ogni tanto, non è leggenda, rovesciando automobili e camion.
I triestini la vivono come un emblema distintivo e sorridono. Sorridono anche quando si parla di fusion come di una nuova tendenza gastronomica. In una città che nell’arco di un secolo è stata austroungarica, italiana, tedesca, iugoslava, angloamericana e, dal 1954, di nuovo italiana, senza contare gli influssi greci e turchi, la fusion è di casa da sempre. Comunque, per l’onnivoro elegante, le cucine sono tre: quella marinara, quella carsolina, ambedue popolari, e quella asburgica, aristocratica e alto borghese.
Primo. L’Adriatico e la cucina marinara
Il mito, valido altrove, che per capire il polso gastronomico di una città la prima meta è il mercato, qui non funziona. I ristoranti di pesce si affidano ai fornitori professionali, tutti gli altri fanno i loro acquisti in pescheria. Però ci si può divertire molto andando alla Barcaccia, la pescheria dentro Eataly, dove il mercoledì a fine giornata vengono messi all’asta per i privati grossi pesci e cassette di minutaglia. Il criterio è opposto a quello classico: ovvero, l’offerta parte dal prezzo alto e si va a scendere. Tutti comunque esigono il pesce che popola il mare lì davanti: scampi istriani, capesante istriane (piccole! se no «i vien de fora», vengono da fuori), granseole (la cui bontà è ritmata dalla luna: «luna piena granzo svodo, luna svoda granzo pien», luna piena granchio vuoto, luna vuota granchio pieno), i celebrati sardoni di Barcola, il villaggio di pescatori a pochi chilometri, che sono acciughe di polpa bianca; e i «peoci», le cozze, allevati nelle pedocere calate nelle acque pulitissime del Quarnero, in Croazia. Le undici sono l’ora canonica per un «rebechin», lo spuntino dei marittimi di una volta. Se cercate sfizi, la vostra destinazione è Salumare, in Via Torino, cuore della movida triestina, dove si mangiano tartine creative e/o tradizionali: pâté di sgombro e capperi; aringa e mela verde; pancetta di tonno affumicato.
Se invece volete sedervi ai tavoli dove tutti – triestini, visitatori, personaggi famosi e non – si sono adattati volentieri all’imperativo del menu a voce perché solo così «è possibile la freschezza del pesce per cui siamo famosi», andate da Menarosti. È un’immersione nel più suggestivo vintage anni Sessanta, effetto salotto un po’ délabré con affettuosa accoglienza dei proprietari e piatti tradizionali il cui gradimento è confermato dai numeri. Per dire: il risotto alla marinara impegna cento chili di riso al mese; ogni giorno sono venti i chili di granseole e seppie, frutti di mare e scampi, rombi e spigole consumati. Fatevi preparare gli scampi alla «bùzara», una volta piatto di pescetti stufati in un sugo ristretto di pomodoro
QUI I CAFFÈ SONO ANCHE NATURALI RIFUGI ANTIVENTO, TANTO CHE MOLTI BAR E BUFFET HANNO DUE INGRESSI, UNO DEI QUALI RESTA CHIUSO FINO ALL’ARRIVO DEL BENEVOLO «BORIN», LA BORA LEGGERA
e olio insaporito con cipolla, aglio, prezzemolo, oggi salito di tono e di prezzo. «Bùzara» può derivare dalla voce dialettale per «imbrogliata, buggeratura», oppure da «boccia», la pentola di coccio in uso sulle imbarcazioni dei pescatori dalmati. La versione civilizzata della ricetta con gli scampi puliti e sgusciati è disprezzata dai puristi che succhiano religiosamente testa e carapace dei preziosi crostacei del Vallon di Cherso, lì vicino.
Però è giugno e, se avete voglia di respirare il mare oltre ad assaggiarlo, è importante che assimiliate lo speciale concetto che i triestini hanno dell’estate in città, concetto che si concentra nell’andare ogni giorno ai «bagni». Gli stabilimenti che punteggiano il lungomare, da quelli liberi dove ci si stende sulle rocce o sul cemento a quelli provvisti di spogliatoi, fino a quelli con lettini e ombrelloni, sono oggetto di testi letterari. Il famoso muro del Pedocin (costo dell’ingresso un euro), che divide la sezione maschile da quella femminile, per Sigmund Freud era «sinonimo di libertà» (per le donne di starsene tra di loro, per gli uomini altrettanto); gli adolescenti vanno ai Topolini; la borghesia da Sticco, sotto il Castello di Miramare. Proprio sul lungomare, con la veranda sulla spiaggetta privata, c’è il Tre Merli, gestito da tre soci/amici con il savoir faire di chi è abituato a dare del tu ai Missoni e al sindaco, servendogli il risotto con la sfumatura prediletta. Il locale, rinnovato da poco, ha anche un corner giovane e veloce con cose come hamburger di salmone e gamberi in salsa tay. Ascoltando lo sciacquio delle onde, cominciate con i famosi sardoni triestini. Impanati (farina, uovo, pangrattato) e fritti, arrivano caldi, croccanti, senza un filo di unto, accompagnati da un’esotica salsetta di perle di papaia. L’ideale è farli seguire dai cubi di baccalà con spinacini e patate novelle, versione estiva e contemporanea dell’eterno baccalà mantecato.
Secondo. Il Carso e la cucina contadina
Trecento metri più su, dove una volta saliva il tram a cremagliera, comincia già l’altopiano del Carso. E la sua cucina, tutta di tradizione slovena, presieduta dal maiale. Due i paradisi del porco: il Pepi e la Siora Rosa. Dove dirigersi? Anche qui è questione di gusti: Pepi, immutato da 120 anni, è macho, piccolo, scomodo; Siora Rosa, col look rifatto di recente e la sala con vista intellettuale sulla statua bronzea di Italo Svevo, è femminile, affettuoso, confortevole. In tutti e due trovate, a vista: la caldaia grande per cuocere i pezzi, quella piccola per tenerli caldi, il contenitore di metallo dove in ghiotta confusione stanno assiepati: 1) carré di maiale, 2) lingua salmistrata di vitello, 3) salsicce di maiale affumicato, 4) salsicce di cragno (macinato grosso di carni suine e bovine), 5) würstel classici, 6) cotechino, 7) porcina (la spalla di maiale), 8) testina. E, per gli intenditori, orecchia e piedino. Per uno spuntino fatevi assemblare un panino; se no ordinate il piatto misto con crauti e patate «in tecia», saltate con cipolla e pancetta, servito con rafano grattugiato, pane nero e senape. In Via Torino, centro della movida triestina, le nuove generazioni amano gli spazi meno cibomaniacali di Draw, concentrati sul piacere di stare insieme wifi connessi, bevendo un aperitivo, leggendo e sbocconcellando piattini eticamente corretti.
Se però si tratta di sperimentare un’autentica cucina carsolina depurata il giusto, salite a Opicina, il quartiere residenziale chic di Trieste, prenotate da Valeria e ordinate la jota. È la tipica minestra triestina, «non carsolina!», esclama il cuoco, una volta addensata con strutto e farina finché il cucchiaio «ci stava in piedi».
Questa invece, con olio di oliva anziché strutto a condire, esige crauti soffritti con semi di cumino, patate con la salsiccia, fagioli, tutti cotti in pentole diverse. Ne esistono anche una in versione estiva, con ritagli di prosciutto, e una firmata dalla storica trattoria Suban, insaporita da una grattata di cren. Poi ordinate il pollo fritto con salsa tartara, altra specialità locale di bontà strepitosa.
Tuttavia per capire la stranezza e la scontrosità di questa terra, dovete addentrarvi nell’interno. Grotte, doline, valli, fiumi sotterranei, roccia durissima coperta da un palmo di terra rossa. Fino alla Val Rosandra, luogo per fiabe che fanno paura ai bambini, con la famosa cascata, i boschi, gli orridi, i torrenti tortuosi, popolata di personaggi un po’ stravaganti. Del genere di Edi Zobec, che a Bagnoli della Rosandra ha creato un agriturismo basato sulla perfezione dei suoi salmoni allevati nelle acque delle risorgive (sono potabili!) che sboccano nel suo terreno. E, su tutto, la bora che riduce la campagna a una sorta di deserto. Se salite ad ammirare gli ulivi del Carso, resterete attoniti, nel senso che, anche quelli centenari, sembrano nani. Come mai? «Perché qui per sopravvivere le piante devono mantenersi basse», risponde Elena Parovel, quarta generazione di coltivatori, che col fratello Euro, a Caresana, nel comune di San Dorligo, produce il suo raro e magnifico olio, da tre anni Presidio Slow Food, dalle olive dell’autoctona varietà Bianchera. Lo stesso vale per l’olio
IL RAPPORTO DEI TRIESTINI CON LA CULTURA È TALE CHE LE STATUE DI ITALO SVEVO, UMBERTO SABA E JAMES JOYCE LI RAPPRESENTANO MENTRE PASSEGGIANO FAMILIARMENTE IN CITTÀ
Mate, di Mate Vekić che a 75 anni ha vinto la sfida del clima mettendo a dimora 25.000 ulivi di varietà abituate al clima benevolo della Toscana. Con risultati straordinari.
Il duello costante con la violenza della natura sembra aver prodotto in tutti una leggera, ostinata follia. Come spiegare diversamente il lavoro di Benjamin Zidarich, vignaiolo a Prepotto? Il luogo, una sorta di balcone alto trecento metri sul golfo, da cui si abbraccia Italia, Croazia e Slovenia, è lo stesso dove il padre e il nonno tiravano fuori giusto il necessario. Lui per dieci anni ha cavato la pietra sotto casa fino a ventidue metri di profondità per tirar fuori cinque piani di cantine. Impressionanti. Poi, già che c’era, ha fatto costruire dei tini di pietra dove fa il Kamen, una Vitovska «minerale e semplice come al tempo degli antichi». Tutta questa fatica per otto ettari di vigna e 30mila bottiglie. I produttori eccellenti in zona, tutti con personali risvolti di bizzarria, sono una trentina, e se vi trovate a Trieste il 15 e il 16 giugno in occasione di Mare e Vitovska, avete l’occasione per un assaggio a tutto tondo di questi vini molto particolari, fino agli anni Cinquanta bevuti e conosciuti quasi soltanto da quelli del posto.
Ci sono la Vitovska, il bianco sapido e minerale che si identifica con la zona; il Terrano, il rosso asciutto e piacevolmente acidulo che nasce dal refosco, lo stesso vitigno che in Friuli dà anche il nome al vino; la Malvasia, il bianco fresco e leggermente aromatico adatto all’estate. Si bevono, e bene, dovunque. Ma per sperimentarli «alla triestina» dovete assolutamente andare a berli dai produttori stessi nella loro osmiza. Anzi, in più d’una se avete tempo. L’osmiza (dallo sloveno «otto») è l’antica licenza accordata ai vignaioli di somministrare cibo e bevande al pubblico a casa propria per due mesi all’anno, divisi in tranche di otto giorni. Senza pagare tasse. Oggi le tasse si pagano ma, come allora, un mazzo di frasche appeso fuori indica al passante che l’osmiza è aperta (sul sito osmize.com, tutte le informazioni). L’ospitalità è rustica: panche e camino d’inverno, panche e pergolato d’estate, vini della casa, salami e prosciutti del maiale ucciso l’anno prima. Idealmente, almeno. Perché l’aumento del turismo lascia qualche dubbio.
Terzo. I caffè e la cucina asburgica
Trieste, che considera Maria Teresa d’Austria col rispetto dovuto a una super-zia, è la dépendance più autentica del civilissimo uso viennese di concedersi una lunga pausa quotidiana seduti al caffè. I caffè storici della città sono tre e non ci si siede nell’uno o nell’altro per caso. Andate al Tommaseo, il più antico, se vi piace l’elegante rimando degli specchi ottocenteschi e la clientela dignitosa e borghese; se siete portati ai calici meditativi provenienti dall’enoteca Bischoff, stessa proprietà, con la sua straordinaria scelta di etichette; se, prima o dopo lo spettacolo teatrale, vi va un boccone chic. Andate al San Marco se volete respirare l’atmosfera letteraria e irredentista; se non avete mancato il breve pellegrinaggio alle tre statue bronzee di Joyce, Saba e Svevo; se volete curiosare nella sezione libreria o, semplicemente, osservare l’entra-esci di intellettuali e studenti mentre pazientate a lungo per veder comparire la vostra ordinazione. Infine, e fa tre, andate al Caffè degli Specchi per scegliere tra 50 varianti di caffè; per sbocconcellare i dolci di Giuseppe Faggiotto, deus ex machina del locale, che nasce pasticciere; per mescolarvi a un’umanità democraticamente variegata. Andate all’Harry’s per sorseggiare il miglior Hugo della città, la versione triestina dello spritz, preparato con Prosecco, sciroppo di fiori di melissa, seltz e foglie di menta; per il servizio impeccabile; per il piacere del dehors più blasonato della città. Poi dirigetevi verso le torte della Bomboniera, la prima pasticceria nata a Trieste, che dal 1836 detiene le ricette originali delle specialità austroungariche, ancora cotte nell’antico forno a legna. Acquistate senz’altro il presniz di scuola viennese, con le noci, l’uva passa e le scorze di arancia e cedro avvolte nella pasta sfoglia a forma di chiocciola. O la soffice putiza, protagonista carsolina di ogni festa familiare.
Tenendo presente che qui i dolci si somigliano perché nascono tutti dai pochi prodotti di una terra avara. Ma se c’è una fiera non mancate un bell’assaggio di kaiserschmarren, la frittata dolce sminuzzata nell’enorme padella di ferro e cosparsa di zucchero.