Editoriale
Un tempo, quando condivo con l’olio extravergine d’oliva l’insalata o bevevo un bicchiere di vino, non visualizzavo la preziosità e il lavoro che ci sta dietro, lo immaginavo e basta. Idem per i capperi. L’anno scorso a Salina, alle 5.30 del mattino (ridicolmente vestita perché non avevo capito bene cosa mi aspettasse, foto sopra) sono andata nei campi. E mi sono trovata davanti a un lavoro di quelli tosti, soprattutto eseguito da una manodopera femminile. Ci si graffia molto le braccia perché la pianta del cappero ha un sacco di minuscole spine e bisogna lavorare di fino per raccogliere con le dita i piccoli boccioli. Dopo queste esperienze, si è incisa sulla mia pelle la certezza che l’agricoltura è dura, così come procurarsi qualsiasi tipo di cibo. Non basta leggere un romanzo di John Steinbeck per comprenderlo, bisogna andare dritti all’esperienza e la sveglia all’alba è solo la parte più dolce. È un mondo d’incertezza dove non è possibile controllare il risultato perché se capita una grandinata, ti si rovina l’intero raccolto di un anno. Nulla è scontato. E una volta staccato il frutto dall’albero non è certo finita. Nel caso delle olive, si va al frantoio fino a notte fonda ad aspettare che esca il nettare o ancora si confezionano le salamoie nel caso dei capperi. Non parliamo poi del vino. La campagna è dura, pescare, allevare, tutto tempra il carattere e viaggiare per l’Italia d’estate ricorda che quel prodotto delizioso che hai appena portato in tavola è frutto di sudore e amore e che quel pesce fresco che ti sta regalando il nirvana sul palato è stato pescato la notte mentre dormivi. E sapete allora cosa c’è? Io oggi guardo un vasetto di capperi con religioso rispetto e una bottiglia d’olio come un dipinto di Rembrandt, e la gente che lavora nei campi, come succede adesso in tempo di vendemmia, come i miei nuovi eroi. Il prezzo dei prodotti resta l’aspetto più tangibile di questa fatica, ma mettere le mani nella terra risveglia un sentimento che non si addormenta più.